lunedì 24 ottobre 2011

Sono un rubacuori! Latin lover? No, recuperatore di organi. – Repo Men, 2010


Sono tempi duri, di crisi. Non solo economica, è tutto il mondo che sembra andare a rotoli. Siamo ad ottobre e fino a due settimane fa faceva caldo, adesso ci saranno dieci gradi.

«…E son venuti di botto, eh! Ma le sembra possibile?! Primavera ad ottobre e poi subito inverno…la va minga ben, non ci sono più le mezze stagioni…»
 «Guardi signora lasci perdere, ha visto che influenza che c’è in giro? Io c’ho un reumatismo (poggiandosi la mano sull’anca e scuotendo l’altra mano)…sono i mali di stagione!»
«Non me ne parli…d’altronde cosa vuole, oggi tutti si ammalano perché nessuno è più abituato a fare fatica, e la crisi c’è perché i giovani oggigiorno si lamentano e si lamentano ma c’han mica voglia di lavorare, son mica le banche, il Berlusconi e tutta quella roba lì, è colpa dei rossi, dei comunisti…»
«A proposito, ha visto le ciliegie che prezzi?! Nove euro al chilo, sembra di andare al far la spesa dal Bulgari, mica al mercato di Via Stresa, e comunque oggi la frutta la fan maturare in serra o la portano da quei paesi lì, tipo il Marocco, si sente che non è mica roba delle nostre parti, come dire, del Meridione…»
 «Non c’è niente da fare, cara lei, si stava meglio quando si stava peggio…e non parliamo dei mezzi pubblici, quelli sì che dovrebbero regolarli - son sempre in ritardo, oggi ho aspettato la 42 per un quarto d’ora, in piedi, mi dica lei se è possibile - così tutti quelli che al lavoro ci vanno in macchina muovono, mi scusi la parola, il sedere, e non inquinano…ma ha sentito della figlia del Carletti?...»

E della crisi parla anche Repo Men, fine ibrido (eufemismo) tra commedia  e azione, strizzatona d’occhio a tutti i livelli - ma con picchi - sulla situazione che pesa oggi sul globo terracqueo.
Potevo dire mondo, o società, o fermarmi a “oggi”, ma globo terracqueo mi fa sentire acculturato, e in più è difficile da digitare. Infatti l’ho scritto due volte due perché sono un virtuoso.

Cazzo Jude se ti stai stempiando...
Comunque: se tu facessi l’esattore delle tasse e andassi a salassare grandi e piccini tutto tronfio e contento del tuo lavoro in un mondo (globo terracqueo) di gente che fa la fame, saresti felice? Sì?! E se poi fossi tu ad avere bisogno di soldi e ti strozzinassero alla grande e ti mandassero a farti brutto il tuo collega grosso che pesta più di te? Come (globo terracqueo) la metti? E se al posto che essere uno strozzino vero e proprio andassi a tagliuzzare laggente perché sei un recuperatore di organi e la perfida compagnia per la quale lavori non fosse una banca o giù di lì ma la più grande mafia legalizzata dei suddetti organi artificiali? E se invece che averti prestato dei soldi ti avessero (globo terracqueo) dato un cuore nuovo? Hey Jude! Non canti più, eh?!

Repo Men parte da una base relativamente originale, si dirige dritto e convinto su binari scontati (la buona, cara, sempreverde legge del contrabbasso), per poi concludersi scontatamente in modo originale che è tipo l’unica cosa che funziona del film. Mi spiego (globo terracqueo):
Scusa Cisco ma mi riprendo Ernesto...
.Base relativamente originale: nel 2025 non esisteranno i vecchi, ma tutti, arrivati attorno ai 35 anni, avranno misteriosamente bisogno di fare almeno un trapianto. C’è un’azienda, la Union (versione 2025 de “l’Organizzazione” - Nomination agli Academy Awards come Originalest Villain’s Name), che produce organi artificiali costosissimi. Loro che son furbi ti dicono cose tipo “rotule 3x2”, ti fanno fesso, ti convincono a fare il trapianto, ma dopo un mese che non paghi il tuo nuovo testicolo destro arrivano Jude Law e Forest Whitaker: con un taser e un sorriso ti  stendono, ti tagliuzzano Ernesto seduta stante e se ne vanno contenti. Jude Law e Forest Whitaker di mestiere fanno i recuperatori di organi. Ma l’ho già detto. Per caso ho anche già detto globo terracqueo?
.Dritto e convinto su binari scontati: Jude Law è un uomo realizzato, ha una casa, una famiglia, fa il lavoro che gli piace e il suo collega è anche il suo migliore amico. Ma…drammone: la moglie se ne esce con la classica «o lui (il lavoro) o me» = Il Jude toppa al volo la risposta + incidente sul lavoro = la moglie lo lascia + un cuore nuovo di quelli del 3x2 = Mondo che gli crolla addosso + lui non ha i sghei por el nuevo corazon e si ravvede e bla bla bla ma ha visto la figlia del  Carletti?
.Per poi concludersi in modo scontatamente originale che è tipo l’unica cosa che funziona del film: non ve lo dico.

…che poi a leggere qua e là son tutti buoni a sputargli addosso, a ‘sto Repo Men. Che poverino, non sarà il film epico alla Blade Runner, ma tutto sommato il suo onesto mestiere di film d’intrattenimento lo fa, eccome. Però fa anche l’errore di avere delle velleità, che costituiscono il vero punto debole del film, perché sono sviluppate in modo facile ed affrettato.

Citando il buon The Rock partiamo con il dessert, i punti forti: ok, ci sono gli attori yeah, c’è la musichina coi tamburelli yeah alla Ocean’s 11, 12, 13, 14, 15The Snatch a volume massimo, la fotografia spacca, ma d’altronde è anche un film costato suppergiù sui 30 milioni di presidenti morti e verdi, quindi almeno fa il favore di essere stiloso.
Io son quello del 3x2
Ma la prima cosa che salta all’occhio è l’ironia di tutta la prima parte del film, portata avanti a mo’ di commediola macabra. E un film di fantascienza supercruento che vuol parlare del mondo (globo terr…basta) e si traveste da british a me piace. Jude Law è in modalità Watson e Forest Whitaker è Forest Whitaker, riescono a rendere credibile e quasi divertente l’opera di pulizia dal sangue. Parlo di “pulizia dal sangue” perché qui l’ironia serve da contrappeso sia alle scene “rotule 3x2,tagliuzzamenti di Ernesto” sia al fascismo convinto dei due, che non sono altro che dei pulotti scimmiati coi bisturi la cui unica salvezza è quella di non essersi mai posti domande.

E adesso vai con la verdura: dopo un inizio promettentissimo, il Jude comincia a porsele pe’davero ‘ste dannate domande, ma d’altronde gli han cambiato il cuore. Strizzatona d’occhio part 2. Da qui in poi il film crolla, tutta l’ironia di cui sopra svanisce magicamente perché lui passa dall’altra parte della barricata: roba da Il principe e il povero VS. San Paolo sulla via di Damasco. Il cambio di prospettiva gli fa passare nel tempo di uno starnuto il sorrisone da tempia a tempia e in mezzo secondo netto lui fa i conti con tutto il suo passato; il secondo atto diventa così un baratro serioso, dove il Jude è braccato e se la dà a gambe, ma è un passaggio troppo netto che trascina giù il film. È per questo che parlo di strizzatone d’occhio: si parla di povertà, di acqua alla gola, di umiliazione del corpo, di uccisione della libertà intellettuale e non, di cameratismo, di media opprimenti, ma lo si accenna di botto, quasi dal nulla, e in maniera gratuita, senza sviluppare un beneamato cippone di niente.

Ecco, qui è quando mi prendo benissimo
Però però, quasi a voler chiedere scusa, il film si riprende sul finale e regala una scenetta d’azione col Jude preso veramente benissimo e con altro che i palati fini aborrirebbero ma che a me è piaciuto nella sua pornografia (in senso lato). Vorrei dire altro ma chi si racconta bravo a fare recensioni sa che non deve spiattellar troppo la trama. Infatti vi ho raccontato tutto il film.

In definitiva Repo Men ha scontentato tutti: al di là del rapporto “30 milioni di presidenti morti e verdi/super flop al cinema”, è quello che gli ammerregani definirebbero ‘tweener, ovvero una via di mezzo, né carne né pesce, né zuppa né pan bagnato, una mezza stagione che non c’è più (…ma ha visto la figlia del Carletti?). Troppo semplicistico e cruento per chi sbandiera moralismi in nome dell’arte, con troppe pretese per chi dell’arte ha un’idea legittimamente sua e ci piacciono gli ammazzamenti con il Pomì. Io che tendo verso il Pomì l’ho apprezzato, è un onesto film di genere tratto da un romanzo di genere (The Repossession Mambo). PERO’, dopo che hai visto il trentesimo film alla Matrix, alla ExistenZ, alla Nirvana dove sai che per quanto tu ti possa fare il culo il sistema vince sempre
1)non ne hai piene le palle ma quasi (solo perché ogni volta su quest’idea riescono a farci dei gran bei filmoni)
2)t’incazzi perché le tante belle cose che dicono sul sistema fanno parte del sistema stesso che genera i propri antidoti per poi reindirizzarli, e allora ti poni qualche domanda. Ma qui sono io che comincio a sventolare il bandierone del moralismo.

Listino prezzi
Comunque, andando in giro su internet ho visto una cosa interessante: hai bisogno  di un piloro nuovo? Hai la proverbiale bruschetta nel’occhio e non vedi più un beneamato? Non ti commuovi più a vedere Over the Top quindi hai bisogno di un altro cuore? Hai le gambe che ti fanno GiacomoGiacomo e quindi necessiti di due rotule nuove? Su www.theunioncares.com ci trovi pure quella di scorta! Rotule 3x2, Evaristi ed Ernesti di ogni forma e misura, fegati multicolori e orecchie che  ti prendono pure Al Jazeera…non perdere l’occasione! Lo devi a te stesso e alla tua famiglia!

(Ogni commento sul costo della campagna pubblicitaria di Repo Men e ogni conlusione che si può trarre su suo effettivo successo sono lasciate alla discrezione del lettore.)

Sigla:

Siamo realisti, chiediamo l’impossibile.

domenica 16 ottobre 2011

Special Revaival Memorial: Il duro del Road House - 1989

 Seconda puntata - la prima è un manifesto, una dichiarazione d'intenti - della rubrica dedicata ai ricordi di chi a vent'anni ha già nostalgia di qualcosa. E ci ha i suoi motivi ci ha diamine! Signore e signori, a voi l'opera seconda di Marco Cullorà.



“She leads me through moonlight, only to burn me with the sun. She’s taken my heart but she doesn’t know what she’s done.”

Non esisteva modo migliore per onorare la memoria di Patrick Swayze se non con “She’s Like The Wind”, canzone che c’ha fatto commuovere in “Dirty Dancing”; con quel film migliaia di ragazzi hanno sognato di incontrare una ragazza con un visino dolce dolce come Baby e migliaia di ragazze di farsi prendere in braccio da Johnny Castle. E la frase “Nessuno mette Baby in un angolo”? Un must che solo Patrick poteva fare con quel suo sguardo intenso, con quella convinzione tipica di chi sa che cosa sta facendo. Un ragazzo normale dopo aver detto quella frase sarebbe stato inseguito dal padre della ragazza, armato di fucile e con i cani sguinzagliati. Patrick però non era normale: aveva i suoi occhi azzurri magnetici, i suoi capelli anni ’60 e il 45 giri di “Time Of Your Life”, un pezzo del 1987 messo nel 1963 (ma come, non ti ricordi? Si chiama futurismo cinematografico! Te l’ha detto Alessandra! Ecco, Alessandra è una ragazza che ne sa a pacchi sul cinema).

Sono passati solo due anni dalla sua scomparsa e lo ricordo sempre con grande affetto e con tristezza, perché ricordare Patrick in questi tempi cinematografici molto cupi ti addolora. Un dolore grande, forte, lo stesso dolore che ti danno i tuoi amici il sabato sera, quando con una birra media ti tirano fuori traumi legati alla tua infanzia che hai temporaneamente rimosso: la coppia di ricci in autostrada ne “Le avventure del bosco piccolo”, Maisha che si rivela a Masai in “Galaxy Express 999”, la fiamma vietnamita di Rambo che muore in “Rambo II - La Vendetta”, la morte di Fudo della montagna in “Ken il Guerriero”(basta così, sto già lacrimando abbastanza).

Si diceva che Patrick fosse l’unico a metter d’accordo uomini e donne, anziani e bambini che li sporcano con la palla in spiaggia, cani e gatti, Maradona e Pelè, carnivori e vegetariani (no quello è impossibile). Era uno di famiglia, diciamocelo pure, perché quando lo vedevi sul grande schermo ti ricordava sempre qualcuno dei tuoi amici o dei tuoi familiari: la sua faccia sorridente ti trasmetteva serenità, come il nonno che ti portava via quando i genitori litigavano; la faccia terrorizzata ti ricorda l’amico che fa foto solo con le espressioni da idiota, seduto su una panchina della fermata della metro. E quando stava per piangere? Ragazzi, quella è la tipica espressione del vostro cuginetto che addenta di gusto per la prima volta uno spicchio di limone e si rende conto che è aspro.

Le sue capacità di attore e ballerino hanno reso dei must due film che sostanzialmente potevano essere ininfluenti nel mondo cinematografico: “Dirty Dancing” (1987) e “Ghost - Fantasma” (1990). Ma ce ne sono almeno altri tre di grande importanza: “I ragazzi della 56esima strada” (1983), “Alba d’acciaio” (1987) e “Point Break” (1991). E poi ce n’è ancora un altro, che sta in un mondo a parte e che ha segnato la mia infanzia-adolescenza, in modo positivo.

IL PATRICK BOUNCER - IL DURO DEL ROAD HOUSE (1989)

Sei bambino alla fine degli anni ’90. Se i tuoi genitori hanno previsto per te un’educazione completa, hanno lasciato che “Bim Bum Bam” e 7Gold diventassero i tuoi genitori televisivi e formassero il tuo carattere e i tuoi valori sin dalla tenera età di 3 anni. Se così è stato, hai visto qualsiasi tipo di cartone possibile e inimmaginabile dai bambini degli anni ’00, rincoglioniti da spazzatura che ti insegna solo a non perdere tempo. Soprattutto hai visto e rivisto film d’azione, comici e horror che sono poi diventati patrimonio comune di quell’ultima generazione di ragazzi nati fra la metà degli anni ’80 e l’inizio dei ’90. Adesso è diverso, non si può più tornare indietro e la fantasia sembra un retaggio del passato. Adesso c’è “Twilight”, talmente falso e smielato che ti viene voglia di spezzare la rotula al vampiro, ci sono i film di Moccia, che ti insegnano a darla via ad un 40enne (Alessandra docet di nuovo); in campo musicale c’è Justin Bieber che prenderesti allegramente a calci sui denti, Lady Gaga che, in un mare di totale povertà artistica, sembra Gesù sceso in terra perché non fa solo i pezzi campionati, ma sa fare anche tre accordi al pianoforte. Questo per farvi capire solo quali sono i fenomeni da baraccone che vendono di più.

È una calda sera estiva. Puoi rimanere alzato anche se sei piccolo, perché il giorno dopo non hai scuola, ma c’è un problema non indifferente: ti stai annoiando da morire. In cucina i tuoi genitori guardano quelle fastidiose miniserie italiane sulla mafia, sui rapimenti, tutte con lo stesso nome, che rubano due serate (se va bene) in prima visione tv. Sulla Rai l’unico programma interessante è Quark, tenuto da un sempre vecchio Piero Angela, longevo come un ginko biloba, ma a questo giro gli accoppiamenti fra felini e il viaggio di Alberto fra le rovine dell’antica Roma non ti interessano. C’è solo una cosa che può vincere la noia e che stai aspettando come le tavole della legge: i bellissimi di Rete 4.
Lungi da me incensare Mediaset e soprattutto Rete 4, la rubrica “I bellissimi” ha formato tantissimi ragazzi, non c’è niente da fare. I migliori e peggiori film d’azione, gli horror con e senza personalità, le commedie trash italiane a episodi o comunque senza un filo logico sono passati tutti lì, in quella dimensione da seconda serata delle 23.00 con l’immancabile bollino rosso, non adatto ai bambini. Ma te ne freghi, non hai avuto paura quando It il pagliaccio ha terrorizzato nella doccia Eddie “spaghetti” Kasbrak, né dell’alien puntualmente ucciso dal tenente Ripley.
Ecco il film! Dopo la rognosa pubblicità, si aprono i titoli di testa: locale anni ’80 con la musica rock degli anni ’80 e la canonica ragazza un po’ bionda che scenda dal suo ferrari. Si apre così “Il duro del Road House”.

Diretto da Rowdy Harrington, un regista al debutto e successivamente molto produttivo (4 film in 21 anni), “Il duro del Road House” esce nel 43 D.S. (Dopo Stallone), ovvero nel 1989 secondo il calendario gregoriano e rappresenta, infatti, una delle ultime zampate dei gloriosi anni ’80, quando le batterie elettroniche, le canzoni pompate con i sintetizzatori (coimbra portugaaaaaaaaaal…mi viene in mente una canzone!) e i capelli cotonati, lunghi, comunque folti erano ancora all’ordine del giorno. Nel 1990 tutto questo diventerà obsoleto e vecchio, arriverà “Mamma ho perso l’aereo” e rideremo amaramente per 5 minuti sull’urlo di Joe Pesci con la testa in fiamme, perché rifletterà un genere di film che farà la fortuna dell’industria cinematografica per un ventennio, soprattutto in Italia. Ma questa è un’altra storia.

La trama? Riassumibile a grandi linee con poche parole: Dalton (Patrick Swayze), un laureato in filosofia, fa il buttafuori al Double Deuce, un locale malfamato di Jasper e protegge la città dal boss locale.
Un paio di considerazioni:

1) L’ultima volta che avevo sentito il nome Dalton avevo 7 anni, davano in tv le repliche di “Lucky Luke” con Terence Hill e i cattivi erano i fratelli Dalton.
2) Un laureato in filosofia che si reinventa come buttafuori, senza uno straccio di contratto. Swayze ha anticipato il nostro futuro di precari senza il posto fisso.

Sottigliezze, sia chiaro, perché in questo film c’è tutto quello che volevate per dare un calcio rotante agli sbadigli: personaggi che menano in qualsiasi modo e per qualsiasi motivo possibile, tavoli e sedie distrutte con forme geometriche inedite, bottiglie volanti che finiscono ovunque e in faccia a chiunque, stecche da biliardo usate come mazze e lamette che spuntano dagli stivali. Ah sì nel caso non lo aveste capito c’è pure il sangue, che è conseguenza di quanto scritto prima.
Innanzitutto solo Dalton potrebbe valere la visione, perché è quel buttafuori atipico che può apparire solamente nei film: non è grosso, non è alto, è un belvedere per il gentil sesso, non guarda la tv nel tempo libero, ma legge e si allena, beve quasi esclusivamente caffè per rimanere lucido e mantiene sempre la calma, che è indice di tremendo fastidio per i suoi stolti avversari. Questi dettagli non devono farvi distrarre da una cosa, ovvero che se gli pesti un piede Dalton ti fa diventare una maschera di dolore e ti rimanda a casa con una rotula di meno. Il miglior buttafuori filosofo del 1989 farà tre cose per tutto il film: picchiare, dirigere il locale e i buttafuori di supporto e lanciare consigli e qualche frase ad effetto.
Ho parlato di buttafuori di supporto? Ebbene sì, perché rimettere in sesto un locale malfamato come il Double Deuce ha bisogno di almeno un altro paio di buttafuori. Per carità, Dalton potrebbe vincere da solo contro 50 persone, ma dal momento che è già il protagonista assoluto, il buon Rowdy ha deciso di non dargli un’ulteriore aura mistica e di affiancargli altre tre figure: un tipo biondo che è il più forte dei buttafuori di supporto, un altro che è il tipico grasso svampito alla John Candy, un terzo non troppo definito, si limita semplicemente a menare sotto il comando di Dalton.

Il cattivone di turno è Brad Wesley, il tipico vecchio boss che si è fatto da solo derubando la città, veste bene, finge diplomazia davanti al nemico e poi gli fa fare una brutta fine. Wesley controlla la città e ha messo i suoi uomini al Double Deuce, in particolare il nipotino Pat, membro ad honorem dell’organizzazione di cattivi degli anni ’80, dal nome “Uomini da prendere a pizze in the face”. Arriva ovviamente Dalton e li licenzia tutti e poi per nostra immensa gioia spacca la faccia a Pat; potrete immaginare la reazione di Brad. Gli scagnozzi del boss sono come i cattivi nei film di Bud Spencer: forti nella misura in cui devono picchiare uomini più deboli di loro e birilli da bowling quando si trovano davanti uomini più forti, in questo caso Dalton e i suoi amici.
Viste così le cose potrebbero essere facili ma Wesley ha il suo scagnozzo n°1, lo psicopatico Jimmy, il classico picchiatore violentissimo che acquisisce peso nell’ultima parte del film, forte quanto Dalton ma senza il suo cuore e ricordatevi che col cuore si vince.
Però ho parlato di tutti tranne che di lui, del mio personaggio preferito del film. Un uomo che del buttafuori non c’ha niente ed è un po’ come Newman in Baywatch. Ve lo ricordate Newman? Sempre presente in ogni serie, stempiato e villoso, era l’antitesi dei guardaspiaggia uomini e donne: col fisico scolpito e bellocci gli uomini, bombastiche e dal sapore di bionda (anche se alcune di loro non lo erano) le donne, sempre con i capelli e col trucco al proprio posto.
Il Newman del film è Wade Garrett, interpretato da un grande Sam Walliot, un personaggio secondario di tutto rispetto. Descritto come la leggenda dei buttafuori, ormai invecchiato e zoppicante, ha il look alla Toki di Ken il Guerriero ed è vizioso come Gigi la trottola, ma non si tira indietro quando deve aiutare il suo pupillo Dalton; avrebbe meritato più spazio, se non altro per aver citato Rambo mentre rabbonisce un marines nel locale: “Datti una calmata Rambo, lo so che vuoi salvare il mondo dai rossi, ma qui non ne vedo!”.

In un film degli anni ’80 non possono mancare le figure femminili gnocche, bombastiche e preferibilmente bionde e “Il duro del Road House” non fa certo l’eccezione, perché la pupa bionda e imbecille è in questo caso la donna del boss e assume il nome di Denise. Nonostante questa scontata biondità, il film realizza il colpo di classe inaspettato: se il protagonista maschile è un laureato in filosofia, la protagonista femminile, bionda (si intende), gnocca e di un certo livello deve avere un’alta professione per sfatare il tabù della bionda gallina e così entra in scena Elizabeth, la dottoressa dell’ospedale locale. Sguardo intelligente, voce normale e non stridula, prevedibilmente disserta di filosofia con Dalton, perché con Swayze nei paraggi è impossibile che non possa scoppiare la passione e quindi l’amore.

Una dedica speciale va invece a Jeff Healey, grandissimo chitarrista e cantante blues che c’ha lasciato troppo presto. Jeff compare nel film nella parte di Cody, cantante/chitarrista del gruppo rock-blues del Double Deuce e grande amico di Dalton.
Rimasto cieco a un anno per un retinoblastoma, imparò a suonare la chitarra appoggiandola sulle gambe, dal momento che nessuno si era premurato di spiegargli come si imbracciava. Questo gli permise di usare anche il pollice, il dito che si appoggia sul manico della chitarra, e di sviluppare così una tecnica innovativa. Il suo disco più famoso è “See The Light”, l’album d’esordio del 1988 (e che esordio!), ma la sua discografia si attesta comunque su livelli molto buoni; quindi ve lo consiglio caldamente perché sarebbe un errore imperdonabile farvi scappare questo immenso talento del blues.
Jeff suonerà la maggior parte delle canzoni che compongono la colonna sonora del film, cover blues suonate con grande classe e che si adattano perfettamente alle risse, due su tutte:

1)      La cover di “I’m Tore Down” mentre Dalton e i suoi amici le suonano di santa ragione agli scagnozzi di Wesley, fuori dal Double Deuce. Quella è una scena epica.
2)      La cover di “Hoochie Coochie Man” durante lo scontro Wade-Dalton vs Jimmy. Lì mi sono veramente emozionato e ho iniziato a incitare Wade, mi mancava giusto la manona con l’indice, tipica delle partite di baseball.


Non farete mai in tempo ad annoiarvi, neanche ad andare in bagno, perché questo film non ve lo permetterà: ogni serata del Double Deuce è un grande calderone dove si menano tutti senza scrupoli e così va progressivamente avanti verso un finale che non potrà deludervi. Non ci sono battute alla “Tango & Cash” e chiaramente non è un film dove si vedono solamente scazzottate anzi, Dalton vi porterà in giro per Jasper, conoscerete le personalità più conosciute della città, sottomesse a Wesley e inizierete a simpatizzare per quel piccolo paesino, fatto di persone oneste e dall’aspetto country. È un film più drammatico di come ve l’ho descritto, perché dalle risse non esce vincitore mai nessuno, come dice Dalton e perché la malvagità di Wesley, un uomo che non si ferma davanti a niente e a nessuno, vi farà pulsare il sangue nelle vene. Allora sì, anche voi che non siete violenti e che giustamente alzate le mani solo in caso di difesa, giustificherete i cazzotti, i tavoli rotti e il sangue che esce dappertutto.
Alla luce di questo film mi sono chiesto come sarebbe potuto essere “The Expendables” se Patrick fosse stato vivo e avesse preso parte al film: sicuramente avrebbe fatto sentire amato il povero Jet Li e avrebbe spiegato a Dolph Lundgren le regole della gentilezza.


giovedì 13 ottobre 2011

Dal genio del Doc: Attack the Block - 2011


Gli eroi veramente importanti nascono da rotture di cazzo veramente importanti. Pensate a, che ne so, Hulk. Ma nel caso di Attack the Block, il film di cui si va testè a parlare, dobbiamo rimanere «radicati sul territorio».

Nessuno nasce Madre Teresa di Calcutta, è questo è ancor più vero quando ti ritrovi a passare la tua esistenza in un quartiere stipato nei quaranta piani di un condominio-Arca di Noè piazzato nel nulla pneumatico della periferia londinese (il Block, appunto). Nessuno nasce teppista, nemmeno, ma è molto facile diventarlo, date le condizioni di cui sopra. Ed ecco che Moses e i suoi amichetti mettono su una baby gang (li avrete visti anche voi i servizi sulla criminalità adolescenziale in UK al Tg2, no? Anche prima di Tottenham Road, intendo) e borseggiano la chiunque per far strada nell'unico settore commerciale con delle prospettive di crescita in questi tempi di grossacrisi (Giovanardi docet): lo spaccio di ddroga.
 Una sera, mentre Moses e i suoi amici cacaziretti stanno per rapinare l'infermiera Sam (Jodie Whittaker), nel Block arrivano gli alieni. Tipo che cadono dal cielo un po' alla volta, senza astronavi - avete capito bene: i primi alieni dopo il simbiota alieno di Spider-Man 3 ad arrivare sul nostro pianeta praticamente a piedi.

Il primo di questi esserucoli è fondamentalmente uno space jockey (Alien anyone?) ricoperto di pelo bianco, e Moses lo fa fuori. Il problema è che nel giro di poche ore ne arrivano a pattuglie, e sono grossi il doppio, neri e coi denti fluorescenti. E piuttosto violenti.
Moses, che intanto è riuscito a ingraziarsi il facoltoso bossino locale Hi-Hatz, si prende la briga di reagire all'invasione e alla carneficina che stanno distruggendo il Block e da il la a uno dei più costruttivi esempi di violenza giovanile mai illustrati al cinema. La cosa s’intreccia a varie sottotrame di criminalità interna, sorelle rompicabasisi e spacciatori strafattissimi. E poi via andare…

Attack the Block è il nuovo parto della squadra che sta dando nuova energia al cinema britannico e mondiale ¨C la premiata ditta Edgar Wright (qui producer), Simon Pegg (attore, qui assente), Nick Frost (attore, qui in un ruolo tagliato su di lui ma parecchio sprecato) e, ladies and gentlemen, al suo debutto alla regia, Mister Joe Cornish (applausi).
Per la cronaca, Questi signori hanno le mani in pasta in uno dei film horror-comedy del decennio scorso, Shaun of the Dead (per i mangiatori di pasta bolonnaise L'alba dei morti dementi), Hot Fuzz (featuring l'interpretazione più convincente di Timothy Dalton punto), e l'enorme Scott Pilgrim vs. The World (per chi non lo sapesse, ma credo che lo sappiano tutti, il film che ha esteso il concetto di nerdgasm al rango di genere cinematografico). Tra parentesi, i siori in questione stanno per uscire con Tin Tin e il Segreto dell'Unicorno (diretto da Spielberg e prodotto da Jackson) e stanno scrivendo il film di Ant-Man per la Marvel.
Ma queste erano info che vi beccavate su Imdb. Però un po' di sfoggio non fa mai male, nevvero?

La squadra sopra presente ha re-inventato la parodia di genere, fondamentalmente nutrendola a succose dosi di sceneggiatura e portando avanti uno dei pilastri della comedy ammerigana contemporanea, ovvero di palestrare e fare esplodere attori feticcio (Owen Wilson anyone?). Feticcio e bravi.
La cosa fantastica è che, in barba all’universo, non hanno mai fatto parodie nel senso “devastato” del termine (la scuola di Brooks prima e Scary Movie poi), ma hanno fatto film di genere, ben scritti, leggermente deviati al comedy. A riconferma: voi vi siete spanciati a vedere Shaun of the Dead. Sìììì? Pussa via!
Attack the Block non ne estraneo: è un film per certi versi drammatico, travestito da cazzata. Ed è serio perché parla fondamentalmente del cancro della società britannica attuale (la criminalità giovanile, il disagio delle banlieue londinesi – e scusate il francesismo) – e non senza semplificazioni e buonismi (ma, porca materia, siamo anche al cinematografo…!) -, solo, con gli alieni cattivissimi (ne muore parecchia di gente, e non certo nel sonno).
Ne vien fuori un incitamento al buono che c’è in questa bistrattata periferia, un orgoglio e un eroismo che violenza e criminalità celano. In sostanza, è un inno alla resistenza, ma anche all’intelligenza. Sì, ve l’ho detto che c’era un po’ di buonismo… Probabilmente ci sarebbero altre rilevazioni da fare, ma il periodo storico è ancora un po’ troppo carico di nitroglicerina per pensarci con calma. Vi basti sapere che è un film che si lascia leggere praticamente ad ogni livello, e diverte pure.

A margine di tovaglia: sfoggio muscolare per Cornish che, concedendosi qualche sergioleonismo, riesce a ritagliare l’epos e la grandeur da una storia che è ambientata nella Scampia di Londra. Non siamo alla disinvoltura del compañero Wright, ma comunque chapeau.

A margine di tovaglia /2: tutte misurate le prove attoriali (un pizzico eccessivo il protagonista John Boyega, ma ssò rragazzi). Grossa delusione per Nick Frost, come accennato (già presente in The Boat That Rocked, oltre che nei Wright-movies), a cui viene affidato un ruolo potenzialmente deflagrante ma che si lascia sguazzare nel macchiettismo. Quantomeno, è importante ai fini della funzionale macchina della sceneggiatura.

A margine di tovaglia /3: se lo trovate ancora in sala, comprate 

venerdì 7 ottobre 2011

Solo Fuckin' Stile: Drive - 2011



Oh cazzo, sì.

L’unico peccato è aver sentito miliardi di pareri positivi prima di andare al cinema, sennò sarebbe stato il sorpresone definitivo dell’anno. Anzi, lo è lo stesso.

Siamo nella Los Angeles di oggi, ma potremmo tranquillamente essere negli anni ’70. Il protagonista è uno dei bellissimi e pure bravi che tirano oggi, ma potrebbe tranquillamente sembrare un disadattato che non ha una beata fava da dire. Il regista è un emergente, ma potrebbe tranquillamente vincere il Festival di Cannes con una sceneggiatura misera. Il film è lento e non succede molto, ma può tranquillamente farti incollare per un’ora e mezza senza che tu te ne accorga. E sono cazzi.

Piedi appoggiati alla poltroncina di fronte, le silver, capelli a punta che ti prego, sacchetto di patatine che fa più bordello della Banda d’Affori alle 7 del mattino il giorno di Natale, l’immancabile tipella 1x2 (ne prendi una, ne hai due – 200kg di ragazzina che mastica la cicca pure quando dorme) e il fottuto iPhone che s’illumina di fronte a me ogni cinque minuti. «Smettila di stare zitto e comincia a guidare!» chiosa la coppietta di zarri cinguettando il suo ineffabile buon gusto: l’italiano da cinepanettone, che va al cinema per vedere i filmazzi, di fronte a ‘sta roba qua se la prende dove fa assai male. Ed esterna il suo disagio.

Tutto il film così. Deliziosamente monofaccia.
Perché in questo film non hai punti di riferimento, c’è solo Ryan Gosling con la sua faccia di merda e il suo silenzio, e dopo che ti sei chiesto «ma sto qua che ci sta a fare?» trovi che la cosa è rassicurante. Perché Drive è torrido, è plasticoso, è kitsch e non ti spieghi perché tutto torni terribilmente. Perché il film è portato avanti con calma e consapevolezza ma è tesissimo, e tu sei lì che dici «daiiiiii!!!» e aspetti stando a metà tra disagio e curiosità, e continui a muoverti sulla poltrona, sei scomodo. Ma godi. Se te ne rendi conto ti immergi in un mondo ovattato che ti fracassa, ma se hai visto che s’intitola Drive e vuoi vedere gli inseguimenti da Fast Five allora non hai capito una beatissima cippa, finisce che per noia conti le parole che dice Ryan Gosling. E arrivi a malapena a quarantacinque.

Inizio apoteottico con titoli di testa in font rosa shocking e poi uno degli inseguimenti più belli che si siano mai visti: piano, al buio, nascondendosi placidamente da macchine ed elicotteri della pula. La suspense visiva viene smorzata dall’autoradio che dice al pubblico quando stare tranquillo e quando agitarsi, muovendosi tra una partita di basket e le frequenze della polizia, per poi capire che è tutto un mezzuccio del Ryan per fare fessi sia i poliziotti che noi che lo guardiamo. Mai uso migliore fu fatto di una partita dei Los Angeles Clippers (chi è un nerd baskettaro come me capirà). Cinema puro.

Il personaggio di Ryan Gosling non riassume tutto il film, ma lo rappresenta. 
Molto molto meno confortante. 
Si potrebbe dire che è un supereroe, presenza sicura al di sopra del mondo, che ordina tutto con la sola presenza quasi robotica, pressoché muto e vestito con un giubbino argentato che pare Robocop (questo è un mio viaggio, il giubbottino ha ben altri significati). Glaciale e confortante.
Si potrebbe anche dire che è un antieroe, perché con quello sguardo semiebete, le parole misurate, la totale impossibilità di capire se e cosa sta pensando, sembra quasi Peter Sellers in Being There: un personaggio di cui non si sa nulla alla ricerca immotivata di uno spazio nel mondo, ma attorniato dal vuoto dentro di sé (mi si perdoni il bisticcio). A differenza del Signor Chance Gardener, però, l’innominato protagonista di Drive è ossessionato perché se ne rende conto. Quando finalmente trova qualcosa e qualcuno, subito rischia di perdere tutto: l’ossessione perennemente soffocata è pronta a gridare. Sempre glaciale ma molto molto meno confortante. 
E sono cazzi 2.

Noi che siamo stilosi a Cannes ci andiamo in pigiama. 
E qui arriviamo a Refn: è arrivato a dirigere Drive perché gliel’ha proposto Gosling, un po’ come Hal Ashby ha fatto con Oltre il giardino, voluto da Peter Sellers. Qui finiscono i paragoni. Ashby era un ottimo mestierante, Refn fa il fenomeno: con una sceneggiatura minuscola, tira fuori il filmone che non t’aspetti, il continuo dialogo con Gosling dà al tutto un taglio e un tono unici. Il kitsch iniziale, il rosa, la giacchetta, i guantini, lo stuzzicadenti, la violenza che esplode per poi sopirsi in un nonnulla, il cinema noir, gli anni ’80, la suspense infilata persino nei ralenti,  il silenzio, il vuoto, sono STILE. Un cazzo di stile. Questo è uno che ne sa, e ne sa a pacchissimi.  

Drive è un film di mafia fatto a sguardi teneri, è un film d’amore fatto a mazzate, va tutto al contrario e in silenzio. Ryan Gosling tace, Carey Mulligan tace, sai che deve succedere qualcosa ma non capisci quando, le svolte arrivano e quasi non te ne accorgi. La sceneggiatura è minima, la recitazione minimale, ma le immagini parlano, i cliché parlano, tutto ha un perché ed è messo al punto giusto: il film va avanti a contraddizioni, quando deve esplodere è fermo, mina le certezze di chi guarda. E poi esplode veramente, in brevi  e devastanti attimi.
Ryan Gosling è muto, i suoi guantini parlano per lui (cinema puro, godimento e successiva erezione). 
Nicolas Winding Refn ti porta dove più gli aggrada senza che tu possa farci nulla (cinema puro, godimento e successiva erezione).

Un film della madonna. Amen. 

lunedì 3 ottobre 2011

Oltre il mito un semplice uomo. Apologia di un'icona.

 Prefazione di chi gestisce l'ebdomadario


In un'epoca di incertezze e decadenza, un contributo da un intenditore che ha deciso di porre la propria anima al servizio di una causa forse non giusta, forse non condivisibile, ma assolutamente giusta e condivisibile. 
Qui non si tratta di fare critica, di giudicare cosa è bello e cosa è brutto, di vedere cosa funziona e cosa invece costituisce un problema. Qui non si usa il cervello, perché darebbe risposte troppo diverse da quelle del cuore, e farebbe male. 


La nostra generazione è nata  a cavallo tra gli anni '80 e i primi '90: riflettendoci, l'inizio della fine. I film di quel periodo ci hanno accompagnati e cresciuti, seguendo un meccanismo forse prestabilito, comunque finendo per costituire un bagaglio, creando un'identità. Noi ventenni - trentenni di oggi affrontiamo il mondo consapevoli di essere la generazione di confine, che usa internet ricordando le VHS,  che grazie alla televisione ha cominciato con Bud Spencer, ha continuato con quel meraviglioso vortice delle produzioni action anni '80 per arrivare ad oggi, forse il  risultato di quel tipo di cinema e televisione, un oggi dominato da forme spettacolari prive di contenuti che puntano all'appiattimento intellettuale e all'uccisione della fantasia. 


Ed il punto è proprio questo: la consapevolezza. Chi ha seguito questo tipo di percorso sa cosa prendere da quei film che tanto fanno ridere le persone che li vedono per la prima volta. Qui non si tratta di pretendere che i film di Van Damme abbiano dei contenuti intellettualmente artistici, tutti sanno che un film con Stallone non parlerà mai della transustanziazione dell'anima, tutti sanno giudicare senza sapere di cosa stanno parlando. Chi è cresciuto con questi personaggi invece alla trecentesima volta che rivede lo stesso film prova le stesse emozioni della prima, perché riesce a filtrarne solo il bello, perché ne è troppo affezionata, perché riguardare certi film è come riguardare una foto di famiglia, con emozioni e ricordi annessi. 
Da questo punto di vista, niente separa Rocky Balboa da Paolino Paperino. 


Una cosa mi ha sempre dato da pensare: conosco tante persone che hanno la mia stessa passione per questo genere di film (e l'articolo che segue ne è dimostrazione) e che allo stesso tempo sono convinte di quanto siano sbagliati i messaggi che può mandare un Rambo III qualsiasi, ma comunque continuano a parlarne con lo stesso entusiasmo di quando si era bambini. Un motivo c'è, e lo leggerete meglio in queste pagine.
Come ho detto all'inizio, è solo una questione di cuore.


Ma la terra con cui hai diviso il freddo mai più potrai fare a meno di amarla  
V. Majakovskij
                                                                                                                              


ROCKY BALBOA: IL CUORE DI SYLVESTER STALLONE di Marco Cullorà

Questo speciale sulla figura di Sylvester Stallone e sul suo personaggio Rocky Balboa non ha l’obiettivo di convertire sulla via di Damasco chi lo reputa una presenza inutile nel panorama cinematografico. Non è per questo che l’ho scritto, non ho bisogno di convincere nessuno sulla presunta bontà dei suoi film. Allora qualcuno di voi si chiederà perché l’ho fatto, perché ho sprecato il mio tempo per un attore che è stato nominato dai Razzie Awards come il peggior attore del XX secolo. Prima che riesca a rispondere, vi direte che l’ho fatto o per esser controcorrente sul cinema attuale o perché non ho niente da fare e sono in cerca dei miei 15 minuti di gloria da provocatore.
Nessuna delle due, vi sentite sempre in dovere di generare pensieri troppo complessi. L’ho fatto prima di tutto per elogiare il mio attore preferito di sempre e la sua opera più riuscita. L’altro motivo centrale è che ho voluto mettere in tavola quello che il fan medio di Stallone vede nei suoi film, che va oltre il concetto dell’aggettivo tamarro. Pazzia e coraggio sono le due caratteristiche necessarie per lanciarsi in difesa di Sly, ma è il cuore che comanda le mie mani, non la razionalità del cervello.
Se siete fan di Sylvester Stallone potreste essere d’accordo con quello che ho scritto, potreste commuovervi ripensando a tutte le volte che avete visto Rocky. Se non siete fan di Sylvester Stallone, ma volete andare oltre il numero di 2 stellette su 5 che gli assegna MyMovies, allora vi guiderò nel percorso delle emozioni che Rocky ha suscitato e che continua a suscitare in me e in tutte le persone che hanno seguito la sua storia.

Nessun cazzo è duro quanto quello della vita.” (John Giorno)

Sylvester Stallone non è uno di quegli attori eclettici di adesso, capaci di saltare da un filone all’altro con grande disinvoltura. Non è un attore incensato dalla critica, che quando ha potuto l’ha massacrato senza esitazioni. Non è portato per i grandi ruoli drammatici o per film da annoiati intellettuali sul divano. Stallone non è niente di tutto questo, ma rientra in una categoria in via d’estinzione, che potremmo paragonarla all’unico villaggio gallico, quello di Asterix e Obelix, che resiste tenacemente agli attacchi di conquista dell’impero romano. Una categoria tenuta in piedi da attori altrettanto vecchi come lui: gli attori che hanno una sola espressione e che sanno fare un solo genere di film, ripetendolo in molte forme diverse. La sua carriera cinematografica è composta da circa una quarantina di film, in cui Sly ha interpretato anche i ruoli più disparati: il giocatore di poker in Shade - Carta vincente, il pilota di Indy car in Driven, il sindacalista in F.I.S.T..
American Semi-gods
Questi sono tre esempi, perché di suoi ruoli atipici ce ne sono ancora, ma in tanti film Stallone ha rappresentato la parabola delle difficoltà che la vita ci pone quotidianamente, la forza di volontà per non soccombere di fronte a nulla, la voglia di rivincita contro una società ingiusta e corrotta. 

Questa morale è il perno della saga di Rocky, che ha proiettato Stallone all’olimpo di Hollywood e allo status di semi-dio nella metà degli anni ‘80 e l’ha ributtato a terra anni dopo, perché il tempo si riprende tutta la gloria vissuta e allora non ne resta che il ricordo.
Prima della nascita di Rocky, datata 1976, Stallone aveva all’attivo qualche comparsata non accreditata e un paio di film da protagonista, senza però emergere da quel sottobosco di attori esordienti che senza l’occasione della vita rimangono tali per tutta la loro carriera. Il suo limite era principalmente la struttura del fisico, che gli permetteva solamente di poter fare ruoli pre-fabbricati da duro.
Il fisico è il suo limite principale, ma ce ne sono altri quattro di grande importanza:

- La monoespressività del suo volto, indecifrabile. Questo quando era giovane, perché negli anni recenti il botox ha reso il volto del nostro Sly un autentico mistero. Dove sono finite le sue emozioni? Come facciamo a capire quando Sly è triste o felice? È come giocare a Cluedo, serve una buona dose di logica ed intuizione.

- Il linguaggio, poco udibile quando era un adone, ormai biascicato con l’età. Si dice che niente sia impossibile tranne l’uomo gravido (a questo innanzitutto c’ha pensato Schwarzenegger con il film Junior), ma la seconda cosa impossibile da fare nella vita è guardare un film di Stallone in lingua originale, senza sottotitoli. Non ce la farete mai, nemmeno un laureato in lingue potrebbe cavare qualcosa da quella bocca.

- La bocca storta con il labbro a virgola, dovuto a una paresi sul lato facciale sinistro quando era bambino. Questa caratteristica, unica nel suo genere, c’ha dato tanta letizia nei suoi film. Ci sono punti massimi di espressione in almeno quattro scene chiave:
1) l’espressione del dolore negli incontri di braccio di ferro in Over The Top (un film sentimentale sul braccio di ferro, solo Sly poteva farlo), soprattutto nella scena della rivincita contro John Grizzly.
2) La scena del rigore in Fuga per la vittoria, con il primo piano a rallentatore impossibile non notare lo sforzo recitativo del labbro virgolone.
Icona, punto. Anzi, virgola.
3) La scena dell’allenamento di Rocky IV mentre traina lo slittino con sopra il cognato e la legna con i legacci legati sulle spalle; anche lì un primo piano sulla faccia determinata di Sly con il labbro in prima fila.
4) Il grido «menzogna!» in Dredd - La legge sono io. Ora, riguardatevi questa scena più volte, fate il ferma immagine sul primo piano di Sly quando urla, prendete l’immagine e mettetevela nel profilo Facebook, o su Msn o su Skype. Quando l’avrete fatto, i vostri ipotetici complessi di inferiorità svaniranno in un attimo, verrete premiati solo per il coraggio di aver messo una foto di Stallone invece di quella di Johnny Depp o di Heath Ledger, ma non una foto qualunque, la foto del labbro virgolone.

- La deambulazione, l’incapacità di correre piegando le ginocchia. Questo problema si è accentuato negli anni ’90, da Demolition Man, per raggiungere l’apice nella leggendaria scena della corsa di The Expendables, in cui Stallone non solo compie una fatica immonda a correre, ma storta anche la bocca come non si vedeva dai bei tempi andati.

Nonostante questi piccoli difetti fisici, che noi irriducibili fans amiamo e difendiamo strenuamente dalle malelingue intellettuali, Stallone ha lasciato una traccia indelebile nel cinema d’azione. I suoi film l’hanno reso un pilastro di un filone che negli anni ’80 ha dominato il cinema americano e ha creato personaggi esportati in tutto il mondo, come Rambo, Axel Foley, T-800, John McClane, la coppia Riggs - Murtaugh (ce ne sono tanti altri ma mi fermo qui) e ha costruito film con trame riassumibili in una o al massimo due righe.

Stallone però non è stato e non è solo la personificazione di personaggi come Rambo o Cobra, autentiche macchine da guerra invincibili, capaci di abbattere elicotteri a suon di frecce, distruggere interi eserciti da soli, ripulire una città dal terrorismo con solo l’uso di una pistola, una bomba a mano e un mitra. Spesso ha rappresentato il personaggio positivo per eccellenza, quella sorta di vecchio padre spirituale senza cappuccio che dispensa lezioni di vita. Rocky è senza dubbio il personaggio più riuscito sul versante della positività e sulla metafora morale delle difficoltà di tutti i giorni.

Rocky Balboa - The Great Challenger

I sei film della saga di Rocky rappresentano l’ascesa e il declino di un uomo comune, di un emarginato che arrivato alle stelle con il titolo mondiale, cade sul lastrico e risale lentamente, ma è soprattutto la rappresentazione della vita di Sylvester Stallone, fra gli alti degli anni ’80 e i bassi del fine secolo e inizio del nuovo millennio.
Rocky Balboa è l’alterego artistico di Sylvester Stallone (la differenza fra i due è solo in ambito lavorativo e sentimentale), nel corso della saga le tappe che ha percorso Rocky, dalle stalle come bullo emarginato di periferia nel I film alle stelle come campione mondiale dei pesi massimi nei successivi tre film e, nel quinto, di nuovo caduto in disgrazia, rappresentano le tappe artistiche che ha vissuto Stallone, da attore che vivacchiava di comparse e di ruoli da protagonista in film di seconda categoria, a divo hollywoodiano nella metà degli anni ’80 che poteva permettersi di rifiutare ruoli che hanno poi fatto la fortuna di altri suoi colleghi, fino al progressivo declino degli anni ’90 e la presunta fine nel nuovo millennio.

Tutto però ha un suo equilibrio, perché una saga intera non può reggersi su un solo personaggio, per quanto poetico possa essere. Nella nostra vita orbitano tante persone, tanti affetti ed è attraverso questi che nascono i ricordi, belli o brutti che siano. Stallone non è uno sprovveduto, sapeva che da solo non sarebbe mai riuscito a far decollare una storia destinata a durare anni e per questo si è circondato di straordinari attori, che hanno calzato alla perfezione i personaggi secondari della saga. Tre di questi hanno un’importanza centrale:

1) Adriana (Talia Shire): compagna di vita di Rocky e sorella di Paulie. Nel primo film è una ragazza ancora più emarginata di Rocky, rinchiusa nel negozio di animali dove lavora con i suoi amici canarini e il cane Birillo a farle compagnia. La pessima montatura dei suoi occhiali nasconde i suoi occhi espressivi, devastanti, quegli occhi che per vederli ti serve la preparazione psicologica, ma ci rimani sotto lo stesso; la sua grande timidezza si nasconde una ragazza intelligente ma insicura perché vittima del fratello Paulie.
Un fragile fiore che si veste da vecchia perché non si sente attraente e non ha una vita sociale per restare accanto al fratello, ma il grande amore per Rocky la cambierà progressivamente, facendo emergere la sua personalità e la forza di cui Rocky ha bisogno. Citazione chiave: «Ogni colpo che tu hai subito, io l’ho subito insieme a te».
Godzilla VS. King Kong
2) Paulie (Burt Young): è più di un migliore amico per Rocky, è un fratello. Perennemente attaccato alla bottiglia, lavora inizialmente nel deposito carni, poi rimane disoccupato e inizia a seguire Rocky negli allenamenti. Le sue emozioni sono un vortice incontrollabile, passano dall’estremità del bene all’estremità del male. Da un lato mostra una grande umanità: in più di un incontro bacia fraternamente il suo amico e lo sostiene all’angolo del ring, ma dall’altro è capace di furenti attacchi d’ira, con tentate aggressioni sempre ai danni di Rocky. Nonostante tutto c’è sempre ed è questo l’importante. Citazione chiave: «Se dovessi cambiar pelle ed entrare in quella di un altro…hai un gran cuore Rocky!»

3) Mickey (Burgess Meredith): lo ammetto, è il mio personaggio preferito. Primo e indimenticabile manager di Rocky, un vecchio ex pugile a pezzi che gestisce una palestra disastrata a Philadelphia. Lascia tutto per diventare il manager di Rocky e allenarlo per l’incontro con il campione dei pesi massimi. È un burbero dal cuore d’oro, uno stratega di esperienza che dispensa grandi consigli, il motivatore che tutti noi vorremmo in ogni momento topico della nostra vita, l’angelo custode che ti urla «ancora un altro round, non ho sentito la campana!». Il rapporto che ha con Rocky diventa quello di un manager/padre severo ma amorevole, che allenerà e sosterrà il suo pupillo fino alla fine. Purtroppo ci lascerà troppo presto, ma tornerà sottoforma di flashback malinconico. Citazione chiave: «Devi mangiare saette e cacare fulmini!»

I cambiamenti di vita di Stallone, da quando ha iniziato la sua ascesa, fino all’apice, riflettono quelli del suo personaggio. Rocky caratterialmente non è sempre stato il tontolone bonario di cui ci siamo innamorati nei primi due capitoli: le vittorie e il titolo di campione hanno consolidato le sue certezze, lo hanno reso spavaldo nell’atteggiamento e nel look: nel terzo (1982) e quarto film (1985) è tirato a lucido, sempre ben vestito, rispetto ai vestiti da mercato e al cappello che aveva nei primi due film.
Adriana, da bellezza nascosta nel primo film, è diventata una bellona raffinata nel terzo e nel quarto; addirittura Paulie è sembrato una persona normale in diverse occasioni. L’emblema della sua trasformazione è nel terzo capitolo del film, quando di notte urla ai barboni in strada di far silenzio, perché disturbano il suo sonno. E le colonne sonore? Nei primi due capitoli sono sobrie e orchestrali, ma con la trasformazione di Rocky si trasformano anche loro e allora pompa a manetta l’hard rock dei Survivor, di Robert Tepper e di tante altre meteore cotonate degli anni ’80.
Soltanto il quinto capitolo (1990) riporterà Rocky, ridotto al lastrico, alla sua precedente dimensione. Il bullo di periferia ritorna a Philadelphia, riprende i suoi vecchi vestiti, diventa titolare della palestra di Mickey, sotto un tappeto di malinconia che pervade in tutto il film e che invecchia Stallone di 10 anni.

Rocky Balboa (2006)

Questa è una doverosa premessa iniziale per arrivare al film a cui voglio dare attenzione: Rocky Balboa, l’ultimo episodio della saga.
Dopo Rocky V il buon Sly aveva categoricamente escluso la possibilità di un ulteriore sequel della saga, convinto che il suo personaggio avesse chiuso un cerchio. Ma sono cambiate molte cose in 16 anni, il periodo di tempo fra Rocky V e Rocky Balboa. Innanzitutto il declino dei film d’azione e l’ascesa dei thriller e della commedia. Lo stesso Stallone si è cimentato in due commedie carine ma deludenti dal punto di vista economico: Oscar, un fidanzato per due figlie e Fermati o mamma spara!. I suoi anni ’90 sono formati da buoni film, come Demolition Man, Cliffhanger, Dredd - La legge sono io ma il declino di Stallone come attore è progressivo e inesorabile, come la fine del XX secolo.

Gli anni ’00 sono il punto più basso: Stallone lavora poco e in film non all’altezza, la sua popolarità è in ribasso e i produttori non lo vogliono più, convinti che abbia ormai dato il suo tempo. Sly si deprime, rimane inattivo per 3 anni, dal 2003 fino al 2006, conduce saltuariamente il reality The Contender sulla boxe e per rimanere giovane si riempie di botox in faccia, riducendo un’espressività facciale già bassa di suo.
Dentro di sé però sente ancora di poter sparare le sue cartucce di non esser finito come gli fanno credere. Ma come rilanciare può rilanciare la propria immagine? La risposta la trova in nuovo capitolo di Rocky.
Una volta deciso, Stallone si mette all’opera. Un one man show del cinema: scrive la sceneggiatura, si carica sulle spalle la responsabilità di produrre e di dirigere il film, rischiando in prima persona la conseguenza di un possibile fallimento.
Se avesse rischiato negli anni ’80, non avrebbe riscontrato nessun tipo di problema, ma siamo nel 2006 e questa domanda serve per dare al film un valore ancora più alto: chi fra i grandi vecchi  nel nuovo millennio avrebbe rischiato di mettere in tavola un ennesimo sequel, mettendo mano anche a una parte dei finanziamenti? Nessuno. In quell’anno alcuni dei nostri eroi degli anni ’80 avevano già cambiato rotta: Schwarzenegger si è rifugiato nel suo posto da governatore della California, inadatto a fare altri ruoli che non siano quelli dello spaccaossa, perché una volta che l’hai visto incinto nel film Junior, cambia ogni tua prospettiva sull’uomo che ha fatto Conan il barbaro. Bruce Willis, il più flessibile di tutti, ha saltellato in continuazione dai film drammatici ai thriller sentimentali, polizieschi sul filo dell’ironia e fumetti riprodotti sul grande schermo, con risultati alterni. Steven Seagal, Dolph Lundgren e Jean Claude Van Damme hanno continuato con le sparatorie, le esplosioni e i cazzotti, ma sono finiti ancora peggio, recitando (ahahahahaha) nei film home video, ovvero quei film che vengono trasmessi direttamente in tv.
Quando viene annunciato un sesto capitolo di Rocky, le quotazioni di Sly ricominciano a salire, si crea l’attesa per il film (io stesso l’ho atteso come la resurrezione di Cristo) e l’industria cinematografica decide l’azzardo e lascia carta bianca a Stallone.

Come hai detto?!
Rocky Balboa esce nell’inverno 2006. Io mi sono proiettato subito per andarlo a vedere, mi sarei venduto anche un rene per rivedere un nuovo capitolo di un personaggio che mi ha cresciuto e le mie aspettative non sono rimaste deluse. Riguardo la trama, non è che un adattamento della trama del primo film, ma 30 anni dopo: lo “sfidante” è sempre Rocky, il campione del mondo Mason Dixon è veloce, imbattuto e soprattutto è nero come Apollo Creed; cambia la protagonista femminile, che non è più Adriana, deceduta come si dice nel film, ma è la piccola Mary, la ragazzina che insultò Rocky nel primo film, ormai divenuta donna e madre di un figlio. Chiariamo, Mary non è assolutamente la sostituta di Adriana, rappresenta solo un’amica e un sostegno per Rocky, ma ha in comune con Adriana la stessa emarginazione, la scarsa autostima e la sua stessa timidezza. Cambia la situazione familiare, perché in questo film il figlio di Rocky è ormai adulto e lavora come impiegato di non si sa che cosa, ma ha poca importanza. Cambia anche il pretesto che porterà al combattimento, una simulazione al computer fra un campione del passato, Rocky e il campione del presente Mason Dixon, che vedrà la vittoria di Rocky. Da lì scoppia un caso mediatico e poi si sa come vanno a finire le cose.

Questo è tutto quello che dovete sapere a livello di trama, perché in Rocky Balboa non è importante né che lavoro faccia Rocky (va bene, ha aperto un ristorante di nome “Adrian” contenti?) né come arriva all’incontro e se lo vince; fanno parte di una base strutturale che permette al personaggio di esprimere la sua malinconia per i tempi andati, la crisi di mezza età, l’insoddisfazione per un lavoro che gli piace ma che in fondo non è il suo lavoro. In questo film c’è il Rocky di cui ci siamo innamorati:
- Il Rocky generoso che appena si alza la mattina sfama Tarta e Ruga, le sue tartarughe, e i canarini nella sua gabbietta.
- Il Rocky un po’ suonato che ogni sera ai suoi clienti racconta sempre dei suoi incontri e lo racconta 1, 10, 100, 1000 volte perché quei momenti gli ricordano quando dentro di sé aveva una forza indomabile.
- Il Rocky padre spirituale che dispensa lezioni di vita al figlio, che lo accusa di metterlo in ombra col cognome («né io, né tu, nessuno può colpire duro come fa la vita. Non è importante quanto colpisci forte, ma quanto incassi e quanto sai resistere ai colpi e se cadi hai la forza di rialzarti, così sei un vincente!»).
- Il Rocky paziente che sopporta le sbarellate del cognato Paulie e ogni sera dà da mangiare a Spider Rico (ve lo ricordate? Il primo avversario in assoluto che si vede nelle scene iniziali di Rocky!).
- Il Rocky “atleta” che beve le uova la mattina, si allena duramente per aumentare la potenza dei pugni, che per un’ultima volta sale la scalinata, sotto le note del leggendario tema “Gonna Fly Now” di Bill Conti.
- Il Rocky con un gran cuore sul ring, che resiste ai colpi dello sbarbato e che le dà con tutta la forza che ha in corpo.

Questi 102 minuti di malinconia sono tutto questo e altro ancora, riflettono sempre la vita di Stallone, la sua volontà di sentirsi vivo e di non darsi per spacciato. A 60 anni sia Rocky che Sly sono uomini che hanno smesso di ascoltare i giudizi critici di chi li stronca con grande facilità. Uomini che hanno ancora dentro di sé una bestia di cui vogliono liberarsi per non aver rimpianti.

Stallone ricomincia da Rocky Balboa, che non è un capolavoro come il primo, ma tanto basta per riconquistare il cuore di tutti, perché costruire scene malinconiche sui bei tempi andati con la tecnica del flashback è la sua specialità; perché in quel pugile vediamo noi stessi, in cerca di realizzare un sogno, di avere una possibilità e di giocarcela al massimo, come ha sempre fatto Rocky. Che cosa voleva dirci Stallone con questi sei film? Che la cosa più difficile da accettare per un uomo è quella di non aver realizzato i propri sogni, perché la vita va inesorabilmente avanti e ci trascina con lei, volenti o nolenti. Un momento sei felice, un altro ancora sei a terra, ma l’importante è resistere e rialzarsi sempre quando si cade.
 
Rocky Balboa ha rilanciato l’immagine di Stallone, che ha ripreso a lavorare a pieno ritmo, realizzando il quarto capitolo di Rambo, John Rambo, e il film The Expendables, l’unico film nel 2011 che potrebbe esser stato fatto nel 1985. Tuttavia Sly in questo decennio è entrato al suo ultimo round, sta sparando le sue ultime cartucce di personaggio positivo che prende la rivincita col mondo. A 65 anni si conserva ancora bene fisicamente ma non potrà andare avanti a lungo, anzi già in John Rambo e in The Expendables è un personaggio fuori tempo, ridicolo anche per certi aspetti, ma lui ci crede in quello che fa, va avanti per amore della sua arte e per amore di chi ancora lo segue, fregandosene delle critiche. 

Oltre il mito, un semplice uomo

Il sesto capitolo di Rocky ha incassato 85 milioni di dollari in tutto il mondo. La saga complessivamente ha incassato circa un miliardo di dollari. Cifre imponenti, ma non solo queste che ne determinano la grandezza e il successo che ha avuto fra il pubblico; Rocky è conosciuto ovunque, la statua di bronzo preparata per il terzo film è stata per anni in cima ai famosi scalini del “Museum Of Art” di Philadelphia, quegli scalini che tanta gente percorre per sentirsi un po’ come Rocky. Addirittura il personaggio è stato inserito nella Hall of fame del pugilato, per il contributo che ha dato a questo sport.

Tutta questa manifestazione di affetto fa sorgere spontaneamente una domanda: qual è il fascino di Rocky? Perché la gente si identifica in lui e non in qualche altro duro hollywoodiano? Perché Rocky è un uomo prima ancora di essere un campione, con le sue debolezze e con le sue paure. È un uomo sul ring, quando scatena la violenza che alberga dentro di lui, ma ha paura di quello che potrebbe succedergli, di non poter più svegliarsi accanto alla donna che ama, di non poter più rivedere il figlio amato; per questo motivo prega all’angolo prima di combattere e superare ancora una volta i suoi limiti.
La gente ama il suo carattere espansivo e tontolone, il corteggiamento nei confronti di Adriana con delle battute bruttissime tutti i giorni al negozio di animali, dove lavora la ragazza; il discorso che fa alla piccola Mary sul fatto che deve essere una ragazza perbene e non frequentare cattive compagnie, la consapevolezza che è un debuttante e non può vincere contro il campione dei pesi massimi, ma vuole resistere e dimostrare a se stesso di non essere un fallimento, il coraggio e la determinazione che ci mette quando sale sul ring, anche se non è sicuro di farcela.
La vittoria morale, la gloria per aver perso a testa alta, la necessità di provarci sempre per non aver rimpianti, spesso sembrano parole buttate nel vento per consolare qualcuno, ma nei film di Rocky assumono lo stesso valore della vittoria di un titolo mondiale.

Ma un grande protagonista è tale solo se ha dei grandi antagonisti a cui opporsi e in questo gli avversari di Rocky sono impeccabili. In ogni film il punto centrale è lo svantaggio di Rocky davanti ai suoi avversari, sempre più forti, più agguerriti e più violenti.
Apollo Creed (I-II film), Clubber Lang (III), Ivan Drago (IV), Tommy Gunn (V) e Mason Dixon (Rocky Balboa) sono avversari tecnicamente più forti e devastanti di Rocky, ma la loro qualità più grande è quella di tirare fuori al protagonista delle caratteristiche che non pensava nemmeno di avere: quella forza e quel coraggio che lo fanno andare oltre alle sue reali capacità, che gli permettono di restare in piedi e di incassare colpi su colpi. Gli incontri dei film di Rocky sono privi di qualsiasi tattica e di studio dell’avversario, sono massacri che logorano anche a livello psicologico, rappresentano la metafora della lotta continua contro le difficoltà quotidiane di tutti i giorni, la resistenza che bisogna avere per uscirne con meno ossa rotte possibili, la forza di volontà per superare un ostacolo e andare avanti, preparandosene a uno nuovo e ancora più difficile.
Non è retorica, è solo una semplice metafora morale della vita. Per questo motivo non si può archiviare Rocky come un semplice film sportivo, ma va inquadrato in una tavolozza dai tanti colori, dal rosso della storia d’amore fra Rocky e Adriana al nero di quando il campione è in difficoltà e cerca dentro di sé la forza di rialzarsi.

Non so ballare. E allora?
Gente, questo è Sylvester Stallone: non sa ballare, non sa cantare, non sa recitare, sa soltanto essere se stesso in un mondo che sembra non aver più bisogno di lui, ma che batte le mani quando cala il sipario. Rappresenta l’anti-attore per eccellenza perché è reale, quell’anti-attore che sta in ognuno di noi quando non si è capaci di mentire agli altri e a se stessi e vederlo sul grande schermo fa capire che l’arte non è mai stata un’élite e che tutti con una possibilità possono esprimere sé stessi e le proprie emozioni. È un Artista con l’A maiuscola, perché si è artisti non soltanto quando si realizzano opere di grande valore, ma anche quando si compiono scivoloni pazzeschi. Il bello e il brutto fanno parte di un grande processo di maturità artistica e umana, in cui aprire il proprio cuore ogni giorno da un lato ti rende più vulnerabile alle ferite, ma dall’altro rinforza te stesso e lui è uno che non ha mai rinnegato niente di quello che ha fatto.
Tutti con Stallone si sentono critici cinematografici: da chi si è fatto due palle così con i film di registi visionari e non lo ammetterà mai, perché se non guardi quei film ti bollano come quello che di cinema non ci capisce un cazzo, a chi effettivamente non ha mai visto un film di Stallone o non l’ha mai visto con un occhio diverso che non sia quello del «vabbè è una tamarrata». Però sono proprio queste critiche che rendono Stallone, Willis, Schwarzenegger dei personaggi indelebili, perché nel bene o nel male ci sarà sempre qualcuno che ne parlerà e i film d’azione riassunti in una riga sono come il gusto del tempo andato, rendono tutti amici.

Parametro reale di bellezza assoluta
Tutti dobbiamo qualcosa a Sly: chi è cresciuto con i suoi film e sa cogliere la poesia dei suoi difetti fisici e dei suoi monologhi cult e trova sempre un motivo per crederci, chi ha come parametro di bellezza assoluta Marie Antoinette di Sofia Coppola e può sentirsi critico, ritenendolo merda liquida (per carità, i gusti personali sono soggettivi) e chi conosce solo la scena di Rocky in cui urla «ADRIAAAAAANAAAAAA!» e gli basta quella perché ritiene i film di Stallone tempo perso.
Non abbiamo certamente bisogno di Rocky, di Rambo (il primo), di Over The Top per sapere che la vita è dura e ci mette davanti ostacoli continui e Stallone non è certo un maestro di vita esemplare, ma quando dimenticheremo che dentro di noi abbiamo una forza indomabile, potremo sentire la voce di Mickey che ci dice «Non ti può battere, perché tu sei uno schiacciasassi!» E questo, ancora una volta, lo dobbiamo alla semplicità e al cuore di Sly.

Fin quando Stallone riuscirà a correre senza piegare le ginocchia, stortare la bocca col labbro a virgola e fare battute ironiche come quella al pelato Steve Austin: «Chi ti manda?» «Il tuo parrucchiere!» lo guarderò come ho sempre fatto, perché al cinema vale una sola regola. Esagerare.