Oh cazzo, sì.
L’unico peccato è aver sentito miliardi di pareri positivi
prima di andare al cinema, sennò sarebbe stato il sorpresone definitivo
dell’anno. Anzi, lo è lo stesso.
Siamo nella Los Angeles di oggi, ma potremmo tranquillamente
essere negli anni ’70. Il protagonista è uno dei bellissimi e pure bravi che
tirano oggi, ma potrebbe tranquillamente sembrare un disadattato che non ha una
beata fava da dire. Il regista è un emergente, ma potrebbe
tranquillamente vincere il Festival di Cannes con una sceneggiatura misera. Il
film è lento e non succede molto, ma può tranquillamente farti incollare per
un’ora e mezza senza che tu te ne accorga. E sono cazzi.
Piedi appoggiati alla poltroncina di fronte, le silver,
capelli a punta che ti prego, sacchetto di patatine che fa più bordello della
Banda d’Affori alle 7 del mattino il giorno di Natale, l’immancabile tipella
1x2 (ne prendi una, ne hai due – 200kg di ragazzina che mastica la cicca pure
quando dorme) e il fottuto iPhone che s’illumina di fronte a me ogni cinque
minuti. «Smettila
di stare zitto e comincia a guidare!» chiosa la coppietta di zarri cinguettando
il suo ineffabile buon gusto: l’italiano da cinepanettone, che va al cinema per
vedere i filmazzi, di fronte a ‘sta roba qua se la prende dove fa assai male.
Ed esterna il suo disagio.
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Tutto il film così. Deliziosamente monofaccia. |
Perché in questo film non hai punti di riferimento, c’è solo
Ryan Gosling con la sua faccia di merda e il suo silenzio, e dopo che ti sei
chiesto «ma
sto qua che ci sta a fare?» trovi che la cosa è rassicurante. Perché Drive è torrido, è plasticoso, è kitsch
e non ti spieghi perché tutto torni terribilmente. Perché il film è portato
avanti con calma e consapevolezza ma è tesissimo, e tu sei lì che dici «daiiiiii!!!» e
aspetti stando a metà tra disagio e curiosità, e continui a muoverti sulla
poltrona, sei scomodo. Ma godi. Se te ne rendi conto ti immergi in un mondo
ovattato che ti fracassa, ma se hai visto che s’intitola Drive e vuoi vedere gli inseguimenti da Fast Five allora non hai capito una beatissima cippa, finisce che
per noia conti le parole che dice Ryan Gosling. E arrivi a malapena a
quarantacinque.
Inizio apoteottico con titoli di testa in font rosa shocking
e poi uno degli inseguimenti più belli che si siano mai visti: piano, al buio,
nascondendosi placidamente da macchine ed elicotteri della pula. La suspense
visiva viene smorzata dall’autoradio che dice al pubblico quando stare
tranquillo e quando agitarsi, muovendosi tra una partita di basket e le
frequenze della polizia, per poi capire che è tutto un mezzuccio del Ryan per
fare fessi sia i poliziotti che noi che lo guardiamo. Mai uso migliore fu fatto
di una partita dei Los Angeles Clippers (chi è un nerd baskettaro come me
capirà). Cinema puro.
Il personaggio di Ryan Gosling non riassume tutto il film, ma lo rappresenta.
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Molto molto meno confortante. |
Si potrebbe dire che è un supereroe, presenza sicura al
di sopra del mondo, che ordina tutto con la sola presenza quasi robotica,
pressoché muto e vestito con un giubbino argentato che pare Robocop (questo è
un mio viaggio, il giubbottino ha ben altri significati). Glaciale e
confortante.
Si potrebbe anche dire che è un antieroe, perché con quello
sguardo semiebete, le parole misurate, la totale impossibilità di capire se e
cosa sta pensando, sembra quasi Peter Sellers in Being There: un personaggio di cui non si sa nulla alla ricerca
immotivata di uno spazio nel mondo, ma attorniato dal vuoto dentro di sé (mi si
perdoni il bisticcio). A differenza del Signor Chance Gardener, però, l’innominato
protagonista di Drive è ossessionato
perché se ne rende conto. Quando finalmente trova qualcosa e qualcuno, subito
rischia di perdere tutto: l’ossessione perennemente soffocata è pronta a
gridare. Sempre glaciale ma molto molto meno confortante.
E sono cazzi 2.
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Noi che siamo stilosi a Cannes ci andiamo in pigiama. |
E qui arriviamo a Refn: è arrivato a dirigere Drive perché gliel’ha proposto Gosling,
un po’ come Hal Ashby ha fatto con Oltre
il giardino, voluto da Peter Sellers. Qui finiscono i paragoni. Ashby era un
ottimo mestierante, Refn fa il fenomeno: con una sceneggiatura
minuscola, tira fuori il filmone che non t’aspetti, il continuo dialogo con
Gosling dà al tutto un taglio e un tono unici. Il kitsch iniziale, il rosa, la
giacchetta, i guantini, lo stuzzicadenti, la violenza che esplode per poi sopirsi in un nonnulla,
il cinema noir, gli anni ’80, la suspense infilata persino nei ralenti, il silenzio, il vuoto, sono STILE.
Un cazzo di stile. Questo è uno che ne sa, e ne sa a pacchissimi.
Drive è un film di mafia fatto a sguardi teneri, è un film d’amore fatto a mazzate, va tutto al contrario e in silenzio. Ryan Gosling tace, Carey Mulligan tace, sai che deve succedere qualcosa ma non capisci quando, le svolte arrivano e quasi non te ne accorgi. La sceneggiatura è minima, la recitazione minimale, ma le immagini parlano, i cliché parlano, tutto ha un perché ed è messo al punto giusto: il film va avanti a contraddizioni, quando deve esplodere è fermo, mina le certezze di chi guarda. E poi esplode veramente, in brevi e devastanti attimi.
Ryan Gosling è muto, i suoi guantini parlano per lui (cinema
puro, godimento e successiva erezione).
Nicolas Winding Refn ti porta dove più gli aggrada senza che tu possa farci nulla (cinema puro, godimento e successiva
erezione).
Un film della madonna. Amen.