venerdì 7 ottobre 2011

Solo Fuckin' Stile: Drive - 2011



Oh cazzo, sì.

L’unico peccato è aver sentito miliardi di pareri positivi prima di andare al cinema, sennò sarebbe stato il sorpresone definitivo dell’anno. Anzi, lo è lo stesso.

Siamo nella Los Angeles di oggi, ma potremmo tranquillamente essere negli anni ’70. Il protagonista è uno dei bellissimi e pure bravi che tirano oggi, ma potrebbe tranquillamente sembrare un disadattato che non ha una beata fava da dire. Il regista è un emergente, ma potrebbe tranquillamente vincere il Festival di Cannes con una sceneggiatura misera. Il film è lento e non succede molto, ma può tranquillamente farti incollare per un’ora e mezza senza che tu te ne accorga. E sono cazzi.

Piedi appoggiati alla poltroncina di fronte, le silver, capelli a punta che ti prego, sacchetto di patatine che fa più bordello della Banda d’Affori alle 7 del mattino il giorno di Natale, l’immancabile tipella 1x2 (ne prendi una, ne hai due – 200kg di ragazzina che mastica la cicca pure quando dorme) e il fottuto iPhone che s’illumina di fronte a me ogni cinque minuti. «Smettila di stare zitto e comincia a guidare!» chiosa la coppietta di zarri cinguettando il suo ineffabile buon gusto: l’italiano da cinepanettone, che va al cinema per vedere i filmazzi, di fronte a ‘sta roba qua se la prende dove fa assai male. Ed esterna il suo disagio.

Tutto il film così. Deliziosamente monofaccia.
Perché in questo film non hai punti di riferimento, c’è solo Ryan Gosling con la sua faccia di merda e il suo silenzio, e dopo che ti sei chiesto «ma sto qua che ci sta a fare?» trovi che la cosa è rassicurante. Perché Drive è torrido, è plasticoso, è kitsch e non ti spieghi perché tutto torni terribilmente. Perché il film è portato avanti con calma e consapevolezza ma è tesissimo, e tu sei lì che dici «daiiiiii!!!» e aspetti stando a metà tra disagio e curiosità, e continui a muoverti sulla poltrona, sei scomodo. Ma godi. Se te ne rendi conto ti immergi in un mondo ovattato che ti fracassa, ma se hai visto che s’intitola Drive e vuoi vedere gli inseguimenti da Fast Five allora non hai capito una beatissima cippa, finisce che per noia conti le parole che dice Ryan Gosling. E arrivi a malapena a quarantacinque.

Inizio apoteottico con titoli di testa in font rosa shocking e poi uno degli inseguimenti più belli che si siano mai visti: piano, al buio, nascondendosi placidamente da macchine ed elicotteri della pula. La suspense visiva viene smorzata dall’autoradio che dice al pubblico quando stare tranquillo e quando agitarsi, muovendosi tra una partita di basket e le frequenze della polizia, per poi capire che è tutto un mezzuccio del Ryan per fare fessi sia i poliziotti che noi che lo guardiamo. Mai uso migliore fu fatto di una partita dei Los Angeles Clippers (chi è un nerd baskettaro come me capirà). Cinema puro.

Il personaggio di Ryan Gosling non riassume tutto il film, ma lo rappresenta. 
Molto molto meno confortante. 
Si potrebbe dire che è un supereroe, presenza sicura al di sopra del mondo, che ordina tutto con la sola presenza quasi robotica, pressoché muto e vestito con un giubbino argentato che pare Robocop (questo è un mio viaggio, il giubbottino ha ben altri significati). Glaciale e confortante.
Si potrebbe anche dire che è un antieroe, perché con quello sguardo semiebete, le parole misurate, la totale impossibilità di capire se e cosa sta pensando, sembra quasi Peter Sellers in Being There: un personaggio di cui non si sa nulla alla ricerca immotivata di uno spazio nel mondo, ma attorniato dal vuoto dentro di sé (mi si perdoni il bisticcio). A differenza del Signor Chance Gardener, però, l’innominato protagonista di Drive è ossessionato perché se ne rende conto. Quando finalmente trova qualcosa e qualcuno, subito rischia di perdere tutto: l’ossessione perennemente soffocata è pronta a gridare. Sempre glaciale ma molto molto meno confortante. 
E sono cazzi 2.

Noi che siamo stilosi a Cannes ci andiamo in pigiama. 
E qui arriviamo a Refn: è arrivato a dirigere Drive perché gliel’ha proposto Gosling, un po’ come Hal Ashby ha fatto con Oltre il giardino, voluto da Peter Sellers. Qui finiscono i paragoni. Ashby era un ottimo mestierante, Refn fa il fenomeno: con una sceneggiatura minuscola, tira fuori il filmone che non t’aspetti, il continuo dialogo con Gosling dà al tutto un taglio e un tono unici. Il kitsch iniziale, il rosa, la giacchetta, i guantini, lo stuzzicadenti, la violenza che esplode per poi sopirsi in un nonnulla, il cinema noir, gli anni ’80, la suspense infilata persino nei ralenti,  il silenzio, il vuoto, sono STILE. Un cazzo di stile. Questo è uno che ne sa, e ne sa a pacchissimi.  

Drive è un film di mafia fatto a sguardi teneri, è un film d’amore fatto a mazzate, va tutto al contrario e in silenzio. Ryan Gosling tace, Carey Mulligan tace, sai che deve succedere qualcosa ma non capisci quando, le svolte arrivano e quasi non te ne accorgi. La sceneggiatura è minima, la recitazione minimale, ma le immagini parlano, i cliché parlano, tutto ha un perché ed è messo al punto giusto: il film va avanti a contraddizioni, quando deve esplodere è fermo, mina le certezze di chi guarda. E poi esplode veramente, in brevi  e devastanti attimi.
Ryan Gosling è muto, i suoi guantini parlano per lui (cinema puro, godimento e successiva erezione). 
Nicolas Winding Refn ti porta dove più gli aggrada senza che tu possa farci nulla (cinema puro, godimento e successiva erezione).

Un film della madonna. Amen.