lunedì 15 aprile 2013

IL FIO DEL TEMPO CHE SCORRE – Jimmy Bobo (Bullet to the Head), 2013


A parlare dei film d’azione usciti negli ultimi tre anni si finisce a fare sempre lo stesso discorso, a dire sempre le stesse cose: che The Expendables 2 è il film cardine per capire l’andamento del cinema di questo periodo, che non c’è più l’action di una volta, che ormai son tutti buoni con mille fantastiliardi di paperdollari a fare spettacolo coni i computerini ma poi nisba, eccetera eccetera…il discorso è uno e uno solo: abbiamo ragione. Punto. Basta.
Film dagli intrecci intercambiabili hanno popolato la nostra immaginazione dalla fine degli anni ottanta ad oggi e ne riportiamo i segni: per i più attempati sono “americanate”, per i più giovani sono solo cose degli anni ottanta troppo poco movimentate per attrarre la loro attenzione. Epoca di videogiochi e film corali, supereroi ed effetti speciali, gloria e grossezza si fanno da parte e lasciano il proscenio a stilosità da CGI, a ninja e a dèi col martello.

È il fio del tempo che scorre, e siamo soli a combattere.

(mi asciugo la lacrima causata dalla liricità del momento e me ne vado affanculo)

The Expendables 2 è un film cardine per questo cinema, questo di oggi intendo, perché ha avuto il merito di rilanciare, seppur come oggetto vintage, l’action anni ’80. E Bullet to the Head è a tutto tondo un film degli anni ottanta, non manca niente, ma niente di niente.

Trama: Jimmy Bònomo è un assassino prezzolato al soldo della criminalità organizzata, dei generici ricconi che vogliono costruire dei generici supermercati al posto di alcune generiche case popolari in una generica città del sud degli Stati Uniti. La generica criminalità organizzata decide di fare fuori lui e il suo compare, e fanno fuori solo il suo compare perché lo Sly non ti devi permettere di farlo fuori mai, ma neanche genericamente. Lui promette vendetta, indaga assieme al suo nuovo amico poliziotto e si vendica.  

Qui sotto una lista dei tratti distintivi che, oltre alla trama, confermano l’annottantesità di Bullet to the Head:
.la macchina di Sly è una muscle car, una generica Ford Mustang o Chevrolet Camaro che sono come il colore nero, snelliscono e stanno bene con tutto
.si forma una coppia razziale mista e duale, poliziotto/criminale, buono/cattivo, vecchio/giovane, tipo 48 ore con Nick Nolte e Eddie Murphy. La bromance sarà l’unica possibile conseguenza.
.Il regista è Walter Hill, lo stesso che ha diretto 48 ore.
.Fioccano i coltelli, meglio se a serramanico.
.C’è almeno una scena ambientata in una sauna, dove qualcuno in maniera ignominiosa finisce con un asciugamano per le mani a mo’ di gonnellina e un buco in testa
.Il riccone cattivo di turno è un mediocre che si attornia di grossi, in questo caso un mercenario della legione straniera.
.La bella del film è una megapatatona di quelle da star male, ovviamente poco famosa (la Sharon Stone de Lo specialista è purissima eccezione).
.Il vero cattivo del film è il mercenario assassino che minaccia Sly, non l’inutile riccone burocrate.
.Il mercenario assassino rapisce la bella del film per conto dell’inutile riccone burocrate.
.Il mercenario assassino ha il codino.
.Il mercenario assassino non ha interesse per i soldi, vuole solo uccidere.
.Il mercenario assassino assassina l’inutile riccone.
.Il mercenario assassino sfida Sly alle asce.  Alle ASCE.
.Il mercenario assassino viene ucciso contemporaneamente in due modi diversi dalla coppia razziale mista e duale.
.Scene di bromance al baretto a suggellare il successo e l’amicizia della coppia razziale mista e duale, momento in cui il giovane confida al vecchio che si sta bombando la figlia.

Questo è il film, ora le considerazioni.
Il titolo. Diamine. Jimmy Bobo. Jimmy Bobo. JIMMY BOBO. In un paese come l’Italia dove il parlare inglese è LA REGOLA per sembrare dei fighi da azienda e confermarsi dei pirla (“fare il debriefing della checklist di sta gran fava per il cliente” e amenità varie), una delle poche cose che aveva senso era il titolo di questo film. «Andiamo a vedere Jimmy Bobo?» «Ah, il nuovo film di Massimo Boldi?». Vergognandoci con le cassiere del cinema abbiamo chiesto quattro biglietti per Bullet to the Head. Stallone, Cipollino e tanta amarezza.

La bella del film. E qui si torna al fio del tempo che scorre. Fosse stato un film di trent’anni fa (non so se si è intuito che potrebbe benissimo esserlo) l’ottima Sarah Shahi non avrebbe avuto scampo, sarebbe stata preda di Sly senza se e senza ma, spacciata. Qui è sua figlia e se la bomba il poliziotto con lo smartphone. Lagrima.

La tematica generazionale. Ormai i nostri eroi sono i mentori di tutto il mondo, ragionano e agiscono alla vecchia maniera, sapendo che è quella giusta, considerando uno smidollato chi usa uno smartphone per fare le indagini e sapendo di avere ragione, che incassano critiche e dispensano consigli a tutti. Oramai è l’unico ruolo che possono recitare, focalizzando l’attenzione sul loro personaggio, ma palesando miglioramenti dal punto di vista recitativo che trascendono il botulino o i pettorali. Van Damme e Sly non sono diventati di botto Peter Sellers, ma la differenza rispetto ai tempi che furono è più che tangibile. Bullet to the Head è l’ultimo di una lista di film che recano seco il concetto «Sly è il Capitano, la Guida, il Mentore e tu lo devi ascoltare»: Driven, John Rambo, Rocky Balboa, The Expendables. Sly accentra e la spiega, questa volta con un personaggio un po’ più chiaroscurale, meno buonista e più stronzo.

Fin qui tutto bene per gli amanti del genere, se non si conta che per far dire «Sly, Sly» e ancora «Sly» al film si sia sacrificata un po’ di azione, rendendo la cosa un filo monotona.

Ma non sono più gli anni ’80, i paperdollari oramai li usano per fare bambinate alla G.I. Joe, e i nostri eroi son diventati i padri delle belle dei film.
 È il fio del tempo che scorre, ma va bene comunque. Revenge never gets old.

sabato 9 marzo 2013

Non ci sono più i russi di una volta - A GOOD DAY TO DIE HARD, 2013


Da studente del Dams è difficile far capire ai propri compagni l’importanza capitale del genere action nel mondo, del cinema e non.
Gente che al corso di produzione cinematografica ancora prima  di avere scritto una riga di soggetto se ne esce con «io voglio  farlo in bianco e nero», che vuole fare la tesi sul documentario  in Herzog, che indaga sul tema dello specchio, che se gli chiedessero «cosa porteresti su un’isola deserta?» risponderebbe «l’iPhone, le Clark o la reflex, ma non so dirti in che ordine» e che se sentisse due note di pizzica dimenticherebbe di essere di Merano e si lancerebbe nella danza delle spade perché la fa sentire tanto libera. Gente così. (fottuti radical chic)

Gente che appena sente «The Expendables» sorride, fa spallucce, lusingata per aver sottolineato la sua superiorità di cultore cinematografico rispetto alla mortalità di un genere commerciale, arido e passato di moda anche se di moda non lo è stato mai. Gente che non ha capito un cazzo né del mondo, né del cinema.
Di qui la domanda principale: tralasciando la sacra, multiforme e intoccabile idea di arte - incarnazione del moto perpetuo dell’animo umano nel darsi e ricevere dal mondo – tradotto: quella che serve a darsi un tono in una discussione ciucciando l’astina degli occhiali (e se avete un po’ di cultura genuina vi accorgete che stiamo entrando in tema), come spiegare l’importanza di una trilogia come Die Hard nell’evoluzione di un genere che volente o nolente  ha cambiato radicalmente l’immaginario di grandi e soprattutto piccini? Come spiegare che i film con Stallone e Schwarzenegger sono entrati nel cuore e nella testa di chiunque li guardasse con innocenza? Come spiegare che finita la guerra fredda non c’è stato quasi più bisogno di loro? Come spiegare che Bruce Willis è stato l’anello di congiunzione tra gli ormai Grandi Vecchi e un mondo che abbandonava i nostri beniamini a far cose come Fermati o mamma spara e Una promessa è una promessa?

La serie dei primi due Die Hard e mezzo (il secondo, quello con Franco Nero all’aeroporto, non se lo ricorda nessuno) ha fatto epoca: da un punto di vista di oggettiva qualità nella lavorazione del film e soprattutto nella costruzione di protagonista e antagonisti. Siamo ormai negli anni ’90 e gli Stati Uniti non hanno più bisogno di eroi per vincere la guerra fredda, c’è bisogno di persone più normali cui affidare la tutela del nostro mondo. Quindi i Mr. Olympia vanno a fare i comici e gli attori comici vengono a fare i salvatori della patria: come un Andrea Pirlo qualsiasi spostato davanti alla difesa da Ancelotti, anche a Bruce Willis è stata rivoluzionata la carriera. Sentitamente ringraziamo.

Entrando più nello specifico, nella trilogia vediamo per la prima volta un protagonista che è la summa di molte figure dei precedenti cinquant’anni del cinema americano: un po’ investigatore da film noir, un po’ (tanto) Rambo, onnipotente e vulnerabile, che uccide centinaia di cattivi ma che ha problemi coniugali, che cammina a piedi nudi sui vetri rotti prendendo le aspirine per il mal di testa. Pensando a Sly che in Rambo III si cura una ferita con la polvere da sparo si capisce cosa voglio dire. Questo «superamento del superomismo nietzscheiano» (cit. “Me stesso mentre me la sboro”, in Pizze in faccia, puntata n. 14?, febbraio 2013) significa anche una  diversa concezione nell’ideazione dei film e dei loro cattivi, dello spazio in cui si muovono, e dello spostamento degli antagonisti da entità malvagie personificate (i vari ufficiali della Santa Madre Russia) a persone che diventano entità controllando l’intero svolgimento della vicenda («Simon ordina: …»). Avere un personaggio più caratterizzato porta ad avere storie più particolari, detta in malo modo. Ma le storie particolari, in questo caso, sono dei film a dir poco PERFETTI, COMPLETI, MERAVIGLIOSI: sto parlando di Trappola di cristallo e Die Hard – Duri a morire, ovviamente. Chi non li ha mai visti faccia il favore di recuperare subito o una demoniaca pioggia di fuoco s’abbatterà sul capo suo e dei di lui congiunti.
Il concetto di claustrofobia nell'action.

Paragonare gli ultimi due episodi della serie alla trilogia iniziale è un’azione da un lato ovvia, ma dall’altro assolutamente sbagliata: bisogna accantonare le aspettative da appassionato per rendersi conto che i Die Hard 4 e 5 sono un’operazione più di marketing che di cinema, e nella pratica si vede, per cui benché la tentazione sia forte si deve considerarli come film a sé, lontani anni luce dalle meraviglie inziali.
Perché se da un lato hai Duri a morire, ovvero il new thriller anni ’90 applicato all’action (esempi di new thriller sono I soliti sospetti e Seven, dove è l’antagonista a tirare i fili della vicenda, facendo da vero e proprio regista della situazione: «Simon ordina: …»), con Jeremy Irons e Samuel L. Jackson, dall’altro hai un Die Hard 4 con Justin Long che manco conosce i Creedence Clearwater Revival e Edoardo Costa a fare il cattivo. Edoardo Costa. Capite che non son cose paragonabili never in the life. Ma never never never.

Passaggio di consegne un cazzo.
Comunque Never In The Llife 4 aveva un budget grosso quanto l’ego di quel coglione di Corona, Never In The Life 5 no, anzi. Sfruttando la grande onda lanciata dal terremoto The Expendables 2, han fatto un film dove è tutto concentrato sulle cose basilari, meno due. Si vede che parte ad handicap tentando di coprire tutto con esplosioni e Bruce Willis. Ma dato che Bruce Willis è vecchio, si dà al film un tono da passaggio di consegne. Anzi, l’unica funzione della sceneggiatura è dire che John McLane passerà il testimone a suo figlio. ERRORE MORTALE. Primo, e qui parla il fan, non c’è qualcuno che possa sostituire John McLane. Secondo, e questa è un’analisi più lucida, non c’è nessuno che possa sostituire John McLane. Ma se ti chiami Salta Boschi («Piacere, Skip Woods, sceneggiatore») e hai scritto cose come l’A-Team e Hitman non lo puoi sapere. Se poi si considera che tutto questo è fatto per coprire l’assoluta assenza di qualsivoglia resto di sceneggiatura, scende una lacrimuccia a pensare a quando si era bambini su Rete 4 e uno schermo attaccato ad un tubo catodico faceva risuonare «Yippie Kay Yay figlio di puttana».

Però c’è il resto: un inseguimento della stramadonnazza di dieci minuti, elicotteri e autoarticolati che sparano, e tutto che esplode. Manca una storia di livello, ma Bruce Willis e suo figlio Jai Courtney si fanno le battutine e sparano e fanno esplodere tutto e distruggono. Se uno va al cinema senza aspettarsi i sani capolavori di una volta né una storia particolarmente articolata uscirà piuttosto soddisfatto. E poi esploderà.

Non completamente soddisfatto però, e qui  si nota quanto i tempi sono cambiati. Questo è un film con i russi fatto nel 2012, non nell’86. È questo ciò che volevo dire con “tutte le cose basilari, meno due”:

.la prima, la tigre della steppa, l’algida assassina siberiana dall’irresistibile carica erotica, è mostrata per tre minuti totali, dei quali 2:59 con indosso una tuta anti radiazioni. E oltre a non uccidere quasi nessuno in maniera spietata, si suicida in elicottero come un imbecille senza nessun motivo, beccandosi anche un medio al ralenti dal buon Bruce mentre si tira dal palazzo in fiamme.  

.l’altro è un errore da megaprincipianti se vuoi fare un sequel di Die Hard: nel casino finale spunta dal nulla un personaggio cui io avrei dedicato un’intera trilogia: un russo di nove metri, largo come due Danko, pelato, a torso nudo a -30 sotto la pioggia radioattiva di Chernobyl, e con tatuato CCCP  sulla schiena ad una grandezza di caratteri che ci fai una pubblicità a S.Siro. Ecco, quest’uomo non solo compare per sparuti secondi di un film action, ma non picchia nessuno. Spara col mitra, da lontano. E non picchia nessuno. Un croissant ripieno di fiele.

In definitiva un film che sarebbe potuto essere meglio ma che non è male, che soffre dell’andamento dei giorni nostri. Non c’è più l’action di una volta perché non ci sono più i russi di una volta, o forse il contrario, e non si sa cosa sia meglio. E non sto parlando solo di cinema.