giovedì 15 settembre 2011

Comunicazione di servizio: il suddetto riprenderà quando sarà finita la sessione autunnale di esami presso il DAMS di Torino.

Le mie due meravigliose lettrici saranno scontente di apprendere che l'illuminante recensione che si attendono questa settimana non ci sarà.
Lancio del giavellotto 

La responsabilità di tutto ciò è imputabile al forse finto forse no Nanuk l'eschimese, che qui si può vedere impegnato alle Olimpiadi; potrei, forse dovrei ringraziare anche Dziga Vertov e gli hurdanos di Luis Bunuel, ma lo farò una volta appurato che l'esame sul cinema documentario avrà avuto un esito consono alle mie aspettative. Sennò col cazzo che li ringrazio.

Assaggio del disco (esperienza degustativa indotta dal regista)











La prossima settimana Ironclad, che mi dicono sia una merda inusitata ma che sulla locandina reca scritto: "Heavy metal goes medieval", imponendomi così di doverlo guardare ad ogni prezzo. Poi vedo che c'è Paul Giamatti coi capelli di Semola. Mi aspetto della barbarie.

Il buon Bill Nichols è lì che mi aspetta, io parlerò di loro a voi (tornerò a farlo) da martedì 20.
Torno a studiare che sennò martedì ci saranno magre figure.

Adesso la pubblicità:


...idolo-delle-folle.

domenica 11 settembre 2011

"Blitz": an average english tale



Jason Statham è un idolo. E basta. Fa spesso film uguali, ma è un idolo.

Per poche cose riesco ad apprezzare i canali Mediaset. Ma di una cosa gli sono grato: con l’aiuto del destino, mi hanno fatto brillare il friccico ner core.
Vorrei che fossi un pirata in The Expendables
È capitato che una sera, nonostante avessi già il computer e quindi tra hard disk e internet un bel po’ di film da vedere, fossi alla televisione. Tralasciando l’autoerotismo olimpico, un revival della primissima adolescenza. Allora, quando finivi di mangiare, c’erano nell’ordine: su Rete 4 Walker Texas Ranger che vabbè, su  Canale 5 la Canalis o chi-per-ella che ogni quarto d’ora la strusciava in faccia ad Ezio Greggio fomentando il training in vista di Sydney 2000, e su Italia 1 Sarabanda. Chiudevi gli occhi sofferente e sognavi che ad Enrico Papi fosse successo qualcosa di imbarazzante e speriamo anche brutto in diretta mondiale, o che Ezio Greggio facesse il pagliaccio solo perché poggiato con le sue ignobili terga su un cono del traffico (i miti irrealizzabili di pischelli romantici e puerilmente illusi), o più semplicemente sognavi che almeno per quella sera tutto fosse concluso. Una volta constatato che il bestiario di casi umani necessario per l’allevamento della Berlusc Jugend fosse finalmente finito, aspettavi. Passato il canonico intervallo pubblicitario, quei bei venti minuti durante i quali riuscivi a leggere un intero Topolino al gabinetto (pausa cacca), capitavano delle cose meravigliose: poteva succedere che ti rivedevi per la quarta volta consecutiva Trappola di cristallo, Duri a morire, un Rambo che non fosse il primo, magari ti beccavi il filmone tipo Casinò su Rete4, se ti andava di culo ma di culo proprio sulla Rai c’era Jackie Chan, e, se proprio non c’era un cazzo, almeno il mercoledì (o il giovedì?) il buon Bud prendeva a pugni in testa tutti quanti. Bud è come il pane. E basta.

Dicevo, prima di perdermi nei meandri della memoria: un paio di anni fa, forse più, ero lì che (“essere lì che” è un altro phrasal verb di chi tradisce radici meneghine) facevo il revival dell’adolescenza, svaccato in mutande sulla poltrona alla “frittatona di cipolle e rutto libero”, e ho trovato su Italia1, nell’ordine: The Transporter seguito da Stone Cold – Forza d’urto. IO NON CI HO CAPITO PIU’ UN CAZZO. Mi son detto: «chi è quel pelato che si cosparge d’olio e piglia a calci in faccia la gente coi pedali delle biciclette?! Idolo assoluto sei già il top assoluto del mio cuore ti amo prendimi». E poi ho visto dei metallari volare coi chopper dentro e fuori le finestre di un palazzo di giustizia americano. Ruffo-uscito-completamente-di-testa.

Fu così che conobbi Jason Statham. Sono passati due o tre anni da allora, forse quattro o cinque, magari sei, magari anche chissenefrega, ma il mio rapporto con lui è sempre saldo. Oggi è un amore più consapevole, ho visto quasi tutta la sua filmografia, e posso spiegarmi meglio i sentimenti che provo nei suoi confronti:

1)Jason Statham è un idolo. Punto.
2)Jason Statham si fa il culo perché è un personaggio eclettico. Ma fa film sempre uguali.
3)È inglese nel modo giusto.
4)Fa almeno due film all’anno.
5)Non ha fatto ancora un film simpaticone in cui si prende in giro (Gnomeo e Giulietta non è mai esistito, e comunque grazie a dio lì doppia soltanto. Ma tanto non è mai esistito.)
6)Ha preso parte ad almeno quattro pietre miliari della storia del cinema che in confronto Bergman e Rossellini son due zarretti da giostre: The Snatch, Crank, Death Race, The Expendables. Ma fin qui non dico nulla di nuovo.

Considerando che l’ultimo punto è insindacabile per ogni persona che abbia voglia di capire qualcosa di cinema, si può capire perché ogni volta che c’è il Jason io smatti.
Dopo che ho visto che Blitz ERA GIA’ USCITO IN TURCHIA IL 5 DI MAGGIO (e io non mi spiego perché qui in Italia dobbiamo aspettare come i brubru - non me ne vogliano i turchi, nella fattispecie gli abitanti di Batman che magari me li ritrovo sul balcone convinti che io sia il Joker) son stato come un re senza corona e senza scorta a bussare per una settimana alla sua porta, e alla fine Marinella-Internet ha fatto il miracolo.

Adesso smetto di dire cagate e parlo del film.
Blitz è  il classico film minore inglese di Jason Statham, uno di quelli che si collocano nel dolce limbo tra le pietre miliari (vedere sopra) e i rari "aborti: film non solo brutti, ma dei veri e propri aborti" (In The Name of the King, Chaos). Visto e considerato che se c’è il Jason smatto, i rari aborti sono riuscito a vederli con un grado di sopportazione elevatissimo rispetto alla media-spettatore, quindi a maggior ragione son delle cagate indescrivibili.

Esatto.
L’inizio del film è una bomba e scusate ma lo spoilero alla grande perché non posso non raccontarlo (o meglio, potrei ma sono stronzo): è notte, Jason dorme, si sveglia, beve a canna un torcibudella alla Renzo Tramaglino, prende una mazza da hurling, «un misto tra l’hockey e l’omicidio» e va a beccare i tipici abitanti della notte lodinese: tre pischelli con tuta e cappuccio, di quelli che nella realtà ne muore accoltellato uno a settimana (o almeno era così quando vivevo a Londra). Qui avvengono duedicodue misfatti: 1)loro stanno rubando una macchina 2) il doppiatore del Jason in questo film è il tizio che dava la voce ai documentari di Sveva Sagramola a Geo&Geo. Ruffo colpito a morte ma continua a crederci. In dodici secondi netti il Jason gonfia i tre cappuccetti rozzi come delle zampogne sotto Natale. Stacco. L’indomani – Interno/Giorno. Lo psicologo della pula gli dice che è malato di violenza, che tutti i giornali ne parlano e che quindi deve dare un’abbassata al crestino. Il Jason che è pelato il crestino non lo abbassa, e comincia a dileggiare con britishness e lieve ironia lo psicologo: «tu hai la penna in mano, hai bisogno di tenere in mano dei simboli fallici». Poi lo carica e lo minaccia. Stacco. È morta la moglie del suo capo, la versione piùBritishmachepiùBritishnonsipuò del commissario Gordon di Nolan (altra città turca – no non è vero): dopo il funerale lui e il Jason vanno a ubriacarsi. Il capo si fa fottere le ceneri della moglie, ne ridono entrambi.Stacco. Dato che il suo capo è depresso e affonda l’anima nella bottiglia, viene sostituito dall’ex commissario del distretto di Bayswater. Il nuovo commissario è dichiaratamente ghei.

La fine del primo atto di un film spesso consiste nel presentare il problema, quello che rompe l’equilibrio della situazione di partenza: qui c’è un tizio che c’ha la fissa di ammazzare i poliziotti e che si fa chiamare Blitz. Ne ammazza un paio, ovviamente si crea il caso, il Jason che è psicopatico ma non stronzo ha fatto amicizia col nuovo commissario ghei (com’è giusto che sia) e indagano assieme, il tizio continua ad ammazzare i poliziotti, finisce che lo beccano. Senza neanche troppi colpi di scena. Questo è il film, hollywoodianamente riassumibile in tre righe. E sì che lo sceneggiatore è quello che ha scritto Moon.

La cosa apprezzabile però è che, come per i migliori film di genere, nonostante una trama ipersemplificata dove sei costretto a far succedere cose inutili per tirare avanti, il film ti passa liscio in cinque minuti. Certo, ci son buttate lì (altro phrasal verb) delle microtematiche inusitate per connotare i personaggi (l’omosessualità, la droga, la violenza non hanno la benché minima utilità nell'economia del racconto), ma per il  resto è un onesto e modesto film inglese con Jason Statham, con i suoi (pochi) picchi: Elliot Lester, uno che fa video musicali con Jessica Simpson, è riuscito a rendere figo un inseguimento a piedi per strada. Il che è un bell’andare in un film in cui il Jason quando fa lo stronzo fa riderissimo, quando pesta fa malissimo ma pesta troppo poco.


È la prima produzione della Lionsgate UK, e si vede. Attori (bravi) inglesi, atmosfera iperlondinese, ostentata attenzione per le minoranze sociali ed etniche, molti pub con ubriaconi lerci “di quelli che ci piacciono a noi” e uno strip club con le ciccione. 
Ohhsssììì!

Nel complesso ci siamo. 

venerdì 9 settembre 2011

mercoledì 7 settembre 2011

Ci salvi chi può: "Babylon A.D." - 2008


Mathieu Kassovitz: l’ho apprezzato. Vin Diesel: lo stimerò sempre, ho anche trovato bella una scena (solo una) di Missione tataBabylon A.D.: date le premesse, si poteva far di meglio.

Prologo. Il Vincenzino è lì col vocione fuori campo che te la conta su (“contare su” è un verbo frasale di chi risente di origini milanesi)su quanto fa cagare il mondo e su quante ne sa lui che è uno veramente grosso; mentre il Vin se la racconta, uno sguardo cala sulla terra dall’alto e dopo aver zoomato su un incrocio stradale fatto a crocifisso, te lo mostra penitente tra le fiamme che ti guarda male dicendoti, sempre fuori campo: «va’ lì come son bello mentre crepo: c’ho troppo stile!». Quello sguardo che cala dall’alto forse è proprio del Vin che è uscito dal corpo (e ce ne avrà messo di tempo l’anima a farsi largo tra tutti quei dorsali), forse è di Dio, forse di tutti e due, forse boh. Ti dici «cagata» ma aspetti di vedere che succede.

Inizio. Una volta che il Vin ti ha detto che sarà morto, comincia il film. Te lo vedi tipo in Bosnia vestito da militare hippoppettaro con un cappuccione che pare una canadese: prima cazzia uno che gli ha venduto una pistola  sgamuffa a 20 dollari, poi va a comperare un capretto e una cipolla, e si mette a mangiare da solo a casa sua. Non fai in tempo a notare il fatto che il capretto è diventato un coniglio e che Vin Diesel non conosce il concetto di soffritto che gli entra in casa - previa esplosione e taa-daah! – una manica di paramilitari serbi coi fucilozzi paura a laser puntato. Il Vin è seduto a tavola, ha di fronte il capretto-coniglio e HA GIA’ PREGATO, non si scompone. Poi fa il culo al capo dei paramilitari serbi. È troppo un mercenario grosso. Fino a qui (più o meno decimo minuto del film ma forse prima) va tutto bene: l’ambientazione e l’atmosfera sono fredde il giusto, lui è Vin Diesel che fa il mercenario, io son preso benissimo. Si capisce che il capretto si è raffreddato perché Toorop (nome ipergrosso che a Vin Diesel calza a pennello) è stato chiamato a fare il corriere per il mafiosazzo del luogo; altra chicca: il mafiosazzo del luogo è Gérard Depardieu, che qui è di un unto e di un bolso come solo pochi slavi sanno essere (non mi si accusi di razzismo, è una constatazione).

Chi è che scassa la minchia quando è pronto?!

Dicevo, noto lo slavismo, noto le fredde atmosfere balcaniche post terza guerra mondiale, il Vin è il Vin, quindi non voglio ascoltare i dialoghi, avvisaglie di un cedimento quasi completo che arriva di lì a poco: cedimento che ha le sembianze del contenuto del pacco. In pratica Toorop deve scarrozzarsi in sei giorni dalla Mongolia a New York un mamozio (o zavorra) composto da: Aurora, una cybermadonnina con le visioni che potrebbe avere trent’anni come quindici, cresciuta in serra in un monastero, e da Suor Rebecca, che l’accudisce, che je mena ai cattivoni e che fa il culo al Vin perché dice le parolacce. Da qui il film è tutto uguale a sé stesso e si alternano: madonnina che frigna, suora che si preoccupa, Toorop che s’incazza, e scene d’azione confusionarie ma fatte manco troppo male. Ma il film cola a picco, e da “discreto, vediamo” cala a “pacco”.

Si capisce che è un lavoro inespresso, un «vorrei ma non posso» per dirla con formule comuni o un «avrei voluto ma non me lo han fatto fare» per dirla con le parole di Kassovitz, che si è lamentato per i tagli eccessivi di montato (e di budget) e per le modifiche della sceneggiatura, aggiungendo anche un «pezzi di merda mi avete rovinato il film». Doveva essere una roba con dei contenuti, con religione e tecnologia, con eugenetica ed esplosioni, ambientata in un futuro che ha vissuto l’apocalisse ma ne aspetta un’altra, con gente che crepa di meschinità in babilonie sul Baltico, con i Noeliti, setta che si chiama come il natale e infatti ti crea la madonna in provetta per aspettare l’Avvento (che non si capisce come si paleserà, forse con loro che controllano il mondo come farebbe una Chiesa qualsiasi), con tante cose che potevano essere ottimi spunti e che invece  sanno di mal riuscito. Babylon A.D. è un mischione casinaro perché non riesce ad esprimersi, punto. Se vuoi provare a dire qualcosa, se scegli di fare una roba con dei contenuti, allora metticeli: gli abbozzi a metà non servono e non piacciono a nessuno. Kassovitz voleva fare l’action mistico-tecnologico, con scene d’azione inquadrate dall’alto e con la camera all’interno dell’azione per dare l’idea di uno sguardo privilegiato e superiore, esterno e allo stesso tempo interiore come solo il Barba (Dio) dicono possa avere: invece è una roba da “un paio di inquadrature dall’alto molto suggestive e via andare, se tu sei francese e vuoi fare il film d’arte con Vin Diesel attaccati a sta gran fava”. Ringraziamo la produzione.
Grazie.
Un altro problema sono i personaggi: va bene che il Vin è grosso e anche se tace ti riempie la scena col solo faccione, ma doveva avere più spazio; dato che è un mercenario disilluso che vive alla giornata in un mondo dove Dio non esiste e quindi bisogna crearlo in provetta, avrebbero fatto bene a far vedere quanto è ateo e tormentato. Pure Michelle Yeoh, suorina ammodo che quando le girano ti secca pure i truffoloni di due metri in un battito d’ali di farfalla, avrebbe meritato parentesi più ampie, solo per il fatto che è una donna iperaffascinante e che je mena, e perché è suora. A me l’immagine della suora ha sempre fatto ridere. Una suora col Super Liquidator mi fa ridere, una Fiat Punto verde che va a novanta all’ora coi finestrini aperti e quattro veli di suore che svolacchiano al suo interno mi fa schiantare, una suora che pesta – e con che stile - solo per 5 minuti in un film di un’ora e mezza mi fa girare i maroni. E intanto la madonnina-pacco sui quindici-trent’anni frigna e ha le visioni.

Babylon A.D. è balbuziente ma avvolto in una confezione affascinante: come già scritto, nonostante la presenza della madonnina con le visioni, quando si pigliano a pizze c’è casino ma se le danno il giusto, nel complesso c’è un buon ritmo e i tempi son calcolati bene, le ambientazioni da “1984 ma senza il grande fratello perché tanto siete poveracci e non ci frega un cazzo di  quel che fate” rendono un sacco, la storia del “ti guardo dall’alto e dopo un secondo sono in mezzo alle esplosioni” è una scelta a quanto pare abortita ma che paga, insomma stilisticamente non è male ma non si salva il salvabile. Perché tutto il resto è vuoto. A sforzarsi di trovare i lati positivi si scrivono quattro righe, e di quelle tre e mezzo le si occupa per fare i pirla. 
Una confezione affascinante.
Poi la ciliegina, che nell’economia della narrazione ci sta, ma che stride perché inusuale, e perché metafora di tutto l’andamento noia-azione-noia del film: la scena finale, quella dove succede il Gran Casino. Di per sé è fatta bene, potrebbe sembrare persino lievemente claustrofobica, loro tre braccati tra macchine parcheggiate che se la fuggono e sparano e pestano hanno molto senso se inquadrati dall’interno dell’azione (per il discorso di cui sopra), ma il tutto va nel cesso se è a venti minuti dalla fine: io son lì che mi faccio due maroni da un’ora perché ogni volta che c’è l’azione tu mi dimezzi l'entusiasmo con la madonnina che frigna e mi piazzi il climax così presto?! E poi?! Io i successivi minuti come li passo?! Sorbendomi tutte le cagate sbattute lì per far vedere che fine fanno persone viste per trenta secondi all’inizio mentre si fanno di botox?! Capisco che devi far vedere come si conclude il tutto, ma tanto se hai già stravolto a cazzo il significato del libro da cui è tratta la storia manda a puttane pure questo ma fai un finale degno di questo nome. Signora Longari, m’è caduta sullo spannung.

Sarebbe interessante vedere cosa veniva fuori se Kassovitz avesse fatto di testa sua: c’erano tante potenzialità ma ne è venuta fuori mezza. Peccato. Ma mi consolo pensando a questo:




martedì 6 settembre 2011

Un ruvido film psicologico: "Driven" - 2001


900 milioni di spettatori. 250 miglia orarie. 20 gare. Un solo campione.     

…sticazzi. Pomposo et magno. Mi aspetto fior di sottotesti e colpi di scena. Li troverò, ne sono certo.

- Seguono brevissimi cenni per introdurre contesto e personaggi, e dare l’idea del livello della sceneggiatura.-

Oggi. A metà tra Nascar e Formula 1. Forse solo Nascar ma ne so ben poco di quel mondo. Wikipedia dice che si chiama Formula CART. Comunque. Il campionato è iniziato da poco, ci sono già due contendenti per il titolo:

il Campione Abituato A Vincere: è tedesco e ha la tuta rossa (a chi somiglia?), quando corre ci ha l’occhio della tigre, ma nasconde una certa dose di umanità. Ha un nome che è tutto un programma, ci chiamerei mio figlio in quel modo: Beau Brandeburg (d’altronde è tedesco. Domanda esi(sten)ziale: ma perché se sei il tedesco di un film devi per forza avere un nome rettangolare tipo Brandeburg, Schnauzer, Wienerschnitzel, Weissbier?). È veramente teutonico: molla quella gran gnagna di Estella Warren (il Cappuccetto Rosso di Chanel – non aggiungo altro) perché lo distrae. Voto 10: eroe stoico.

Il Giovane E Talentuoso Protagonista, promettente e frustrato: non riesce ad esprimere il suo potenziale. È un tontolone dal cuore puro che non sopporta le pressioni del fratello agente. Però ha talento, sennò col carisma da Ciccio di Nonna Papera che si ritrova non potrebbe essere il protagonista. Voto 6: a dispetto della faccia che si porta appresso, ci crede. È aiutato da:  

il Team Manager Che Sa Come Va Il Mondo Delle Corse: sta sulla sedia a rotelle (come Frank Williams), è un avvoltoio scafatissimo, un nonno che sa il cazzo suo, gnucco e cinico che manco Andreotti. Voto 8: al baffetto gnucco e cinico di Burt Reynolds; al resto, cioè Burt Reynolds, 5. Per far sbocciare la sua giovane promessa in cui non crede – d’altronde è gnucco e cinico – il nonnetto chiama:   

il Grande Sconfitto Che Ha L’Ultima Chance: il veterano  che una volta se la comandava ma ha fallito perché maledetto e dissoluto, e che adesso ha un’ultima opportunità; purifica sé stesso da ogni peccato facendo da balia al pirla coi complessi che però è bravo, raggiungendo così la redenzione eterna. È evidente che è anche Un Grosso Che Ne Sa A Pacchi: infatti è Tanto, Joe Tanto. Voto 10: inelegante per scelta.

"Un ruvido film psicologico"
Pare che in sede di scrittura del film ci sia stato un lungo dibattito, con gli autori che portavano ampie relazioni dal titolo: “La necessità del ruolo della donna come metronomo di umori e progressi nei protagonisti dei film – Rotture di balle tra passato e presente”. Voci di corridoio vogliono che tale dibattito abbia avuto una durata prossima ai cinque secondi netti, e che sia andato più o meno così: «Sly ma non possiamo fare nulla per riempire un po’ la trama e dare altre connotazioni ai personaggi?» «No, è un ruvido film psicologico.» . Forti pressioni sono state esercitate quindi per far capire al noto protagonista/sceneggiatore/produttore l’importanza di infilarci qualche donzella/vacca, incredibilmente inutile per lo svolgimento psicanalitico della trama ma fondamentale perché il potenziale pubblico di questo film è del novantanovevirgolanoveperiodico% composto da uomini. Il noto “produttore/ecc…” ha così replicato: «Vabbè se insistete possiamo metterci un paio di pollastre pseudocarismatiche che rugano la minchia ai piloti. La bella del film la facciamo finta brava e un bel po’ stronza: sta col campione che all’inizio è quello figo, poi la fa annusare al regazzino e poi lo molla, perché il Brandeburg, diavolo d’un tedesco, ci ha ripensato. Lei va solo dove tira il vento, sta con chi vince ma lo fa per il bene del protagonista: tutti hanno qualcosa da insegnare, questa è una storia di morte e resurrezione. Poi, per quanto riguarda il Grande Sconfitto (che poi è quello che dà più lezioni di tutti, che poi lo interpreto io), avrà una Ex Maledetta Che Lo Ha Fatto Soffrire. Lei adesso sta con il suo alter ego giovane, Memo, li sbattiamo lì a gratis come monito degli errori commessi in passato, e per dimostrarlo chiamiamo lui come un post it; il buon diavolo di Memo ha stima per Il Grande Sconfitto perché lui (cioè io) è Un Grosso Che Ne Sa A Pacchi (d’altronde, ribadisco e risottolineo, lo interpreto io). Il Grande Sconfitto si metterà poi con una Cinquantenne Intellettuale Ancora Piacente (si badi, non il Milfone Da Olimpiadi, solo piacente) che per sensibilità e fascino degli anni rappresenta chiaramente una pensione spirituale tranquilla e confortevole: da Grande Sconfitto diventerà definitivamente Un Grosso Che Ne Sa A Pacchi E Che A Prescindere Ha Trovato La Sua Dimensione. Ma, a parte questo, non si vedrà nessun capezzolo, è un film psicologico.».

Quindi mezzo bikini in tutto il film e salvati solo i cavoli, non le capre. Scelta che a ripensare al film sembra insospettabilmente giusta.
"Film a capezzolo zero ma siam contenti lo stesso."

Nonostante le premesse, ovvero una sceneggiatura deboluccia andante che dopo venti minuti sai già dove andrà a parare con Sly deus ex machina che risolve ogni problema con un sorriso e aiuta a trovare l’essenza di sé stessi (tutti imparano qualcosa in questo ruvido film psicologico. Voto 4: disneyano…), Driven è un film menopeggio. E sai perché? Perché arriva Renny Harlin e ti dice: «I miei film costano un botto e incassano la metà, ma sono fatti bene. Guarda cosa ti cavo fuori dal quasi nulla» e trac! rende Driven un film quantomeno accettabile: è tutto scontato, succede relativamente poco ma cinematograficamente regge tutto quanto,  l’attenzione non cala mai, ci sono il ritmo e l’equilibrio giusti; in più, le gare in macchina sono rese bene e ci sono dei cazzo di incidenti con matti in casco e pigiamino ignifugo che volano e si incendiano. E poi c’è un’atmosfera del tutto particolare: quello narrato è un mondo di stereotipi, e le facce degli attori son tutte in pura gomma Stabilo, tutti bianchi e puliti, un labile misto tra il lindo e il laido. Non è un bel vedere, ma se si aggiunge questo alle ambientazioni e alla regia viene fuori che nel complesso Driven ha un’unità stilistica coerente. Non affascinante, né bella. Coerente. E rido. Mentre scrivo mi rendo conto che è la cosa più dissonante che si possa pensare a vedere un film del genere e mi sembra una cazzata gigante (il tutto ha ottime possibilità di esserlo). A parlare di unità stilistica in Driven sento di fare il sommelier bevendo il Tavernello, e scopro che stavolta non è poi così male. E bravo Renny.

Più Rambo, meno Provolone: "Demolition Man" – 1993


Sly cubetto di ghiaccio in un cocktail? Il sogno di molti. Io venderei un parente.

Sogni eroici a parte (la “t” l’ho dimenticata apposta), si è di fronte al filmone maffo che quando lo vedi da bimbo sbrocchi perché sei preso bene e quando lo riguardi da grande sbrocchi perché è veramente maffo, ma sei preso bene lo stesso e forse più.

Sei bambino e lo sei a metà anni ’90; vedi un film ambientato in un futuro di chierichetti e pretazzi stile Don Giussani; vedi che ci sono due tizi gonfi che in mezzo allo sdegno NeoTeoCon si prendono a sberle e ti dici: «Paura! Nel 2030 Wesley Snipes avrà una capigliatura che per rimetterlo in sesto bisognerà scongelare anche Rolando Elisei il parrucchiere delle dive!».

Quando sei quasi adulto, o almeno quando fai finta di esserlo (perché godi ancora più che da bambino nel vedere Silvestro Gardenzio col suo labbro a virgola), assumi uno sguardo un filo più critico.

Non so cosa avesse Sly in quel periodo, forse una sorta di sindrome autoironica da anima della festa (Fermati, o mamma spara o l’inusitato Snap Provolone di Oscar – Un fidanzato per due figlie, del ’92 e del ‘91): si trastulla a fare la macchietta di sé stesso e dei suoi amici grossi - Schwarzie bello anima e cervello che nel film è diventato presidente USA provocando lo sconcerto del suo amico virgolone - ma con risultati talvolta apprezzabili. Conchigliette a parte, l’idea della sartina è un esempio niente male: vuoi mettere?! Potersi bullare di avere un cardigan fatto all’uncinetto da Sly… Io venderei un parente.

Questo andamento “poca azione/tanto umorismo che dopo un po’ stona” fa diventare il film un tantino sifulo. È un meccanismo che tira se il protagonista ha da massacrare tanti grugnoni pazzi vestiti di pneumatici, e ogni tanto, solo ogni tanto, scatta l’intermezzo o la battutina: al trentesimo sketch consecutivo che mostra chiaramente che i lapsus di Sandra Bullock vogliono dire «lei ci ha voglia del pipo dello Sly, è stufa di videogioconi di realtà virtuale che non hanno neppure un turgido joystick di 20 centimetri», uno apprezza Sandra Bullock ma se non vede mezzo capezzolo o milioni di risse comincia ad indispettirsi.
Però sono simpatico

Poi: posto che se si guarda quanto di fascista o di filoamericano c’è nei film d’azione, si comincia oggi e si finisce quando nel mondo si smetterà di sbriciolare mangiando i cracker. Non voglio notare il fatto che è un film che si basa sull’idea della necessità della violenza in una qualsivoglia società (che a voler essere cinici non è un discorso neppure troppo campato per aria, per quanto difficile da mandare giù). Non voglio notare che il cattivone che porta distruzione e terrore a destra e a manca in un mondo di soli bianchi bianchissimi è immancabilmente afroamericano (e ispirato quasi sicuramente a Dennis Rodman, personaggio cult che tanto scalpore destava nei NeoTeoCon di allora – idolo delle folle). Non voglio notare che i reietti della società dipinta dagli autori siano per metà ispanici/zingari e somiglino fin troppo ai comunisti robbosi lerci dannati hippy fumamargherite che vogliono praticare l’amore libero in barba a Don Giussani, e infatti si sentono dire alla fine del film «dovrete ripulirvi un po’». Non voglio notare l’involontaria congruenza di un mondo senza violenza con gli avvenimenti di più o meno recente attualità dell’epoca (un paese può permettersi un regime di assoluta non violenza solo se non ha nemici da cui difendersi al suo esterno): il Muro di Berlino è crollato tre anni e mezzo prima dell’uscita di Demolition Man, e Simon Phoenix è chiaramente molto più pericoloso di Boris Eltsin.

Queste cose sono (quasi) assodate e io mi diverto a vaneggiare in facili dietrologie (e parlo senza avere letto il fumetto, quindi potrei avere scritto una gragnuola di cagate). Ma il problema è un altro, ed è grosso: unendo i due punti che ho analizzato, è chiaro che gli sceneggiatori hanno optato per una visione disneyana della cosa che vuole giustificare in maniera gigiona quanto descritto poche righe sopra. Insomma, t’indorano la supposta, il che fa un po’ rotear gli zebedei. Ma cazzo, viene scongelato il supercriminale pluriomicida, tu fai liberare uno che lo chiamano Demolition Man e vuoi che questi due in un mondo di fighetti finti pacifisti che non sanno nemmeno farsi le seghe facciano a gara di battutine? Falli menare di santa ragione in nome di un sano machismo, fagli fare gara a chi ce l'ha più lungo, che ne so, un bel contest di rutti, mettici uno scienziato che costruisce supercannonazzi laser, inventati qualcosa di rozzo, infilaci dentro i più grandi cliché di genere, insomma fai che i personaggi del tuo film siano in linea con i messaggi che mandi e con la storia che devi trattare, così magari sei meno ipocrita e il film ti riesce meglio. Più Rambo, meno Provolone.
Ti vogliamo così

BRAMBILLA MARCO, il Ricky Cunningham della Bovisasca, che poi sarebbe il regista, aveva una sceneggiatura banalotta ma in quanto tale sfruttabile ed elastica e non ne ha sviluppato tutto il potenziale; senza il Gardenzio  che tira la carretta facendo il simpa e menando e poi menando e facendo il simpa sarebbe stato tutto molto peggio, un mortorio quasi privo delle trovate giuste. Il ritmo della narrazione è da latte alle ginocchia. E non che manchino gli esempi di action con aspirazioni umoristiche: prendi un Tango e Cash a caso, che è stato fatto con la metà dei soldi ed è divertente il doppio. Lì hai i due grossi della situazione che si fanno le battutine che non fanno ridere, ma sono loro a dirle, e con ritmo serrato (quasi) da commedia (so che è un azzardo scrivere questa cosa ma mi espongo), quindi ti escono fuori delle cose divertenti; qui hai Sandra Bullock che canta i jingle delle pubblicità. Lì hai loro che combattono contro un esercito di carcerati, ci sono voli, inseguimenti e ciccioni che finiscono fritti, e c’è un finale assolutamente improbabile e scontatissimo, quindi c’è l’equilibrio di cui hanno bisogno questi film. Qui, ambientazione a parte, che per l’epoca ci sta eccome, si poteva fare molto, molto di più sotto tanti punti di vista.

Ma al cuor non si comanda, e a parte tutto io a Sly gli voglio bene. In questi casi il cuore lotta contro i pensieri: le tutine aderenti, il basco da soldatone cattivo, le grida e le smorfie di dolore, i faccioni ciottoloni di Silvestro anima della festa - «non è mai bello uccidere!» poi ci pensa su e corregge il tiro «Beh, magari a volte sì…» - sono un piacere intellettuale proprio perché son quelle cose che in un film serio non accetteresti, ma stavolta non fanno passare in secondo piano tutto l’umorismo gratis non bilanciato da “Cobra in gita al supermarket: Poliziotto Glaciale Assassino anni ‘80”.
Ti vogliamo così. E io voglio quegli occhiali. 

Se ci fossero meno tempi morti Demolition Man sarebbe più godibile, e meno idiota. Io a Sly gli voglio bene, ma qui ha toppato, e di brutto. Questo film è una cagata niente male. Come direbbe l’Arciduca nel pieno del suo aristocratico contegno: «Sly ti voglio bene ma se fai cazzate t’inculo con la sabbia». 

Dov'è Iolao? - "In the Name of the King: a Dungeon Siege Tale" - 2008


Annoiato da un post ferragosto milanese dove non c’è “neanche un prete per chiacchierar” (cit. da il Molleggiato), solo en la mia magione, mi metto alla ricerca di un film di nicchia, di quelli che non si guarda nessuno: sono fortunato, trovo la chicca immotivata e inspiegabile.

Vedo che c’è il Jason, e solo dopo noto che ci sono pure Ray Liotta, Burt Reynolds che fa il re e un paio di attori del sottobosco delle produzioni fantasy-fumettare e televisive, ovvero i tizi che hanno fatto Hellboy (Ron Perlman, il quale ha davvero un mandibolone da primato e da primate – idolo delle folle) e Gimli (John Rhys-Davies: lui invece ha la faccia da nonno di tutti, o al massimo da prozio). È una produzione canadese e il regista è tedesco. Posso dichiararmi soddisfatto.

Inizio: in un castello stile Signore degli anelli ma un po’ più kitsch un Ray Liotta travestito da Silvan si sta limonando una tizia bruttarella forte bofonchiando parole d’amor per intortarsela; siamo chiaramente a casa di lei. Si capisce lontano un miglio che Ray Liotta è il mago cattivo, e se la pastura duro per poter intrigare a corte: lei è renitente, fa la preziosa, lui coglie occasione per snocciolare un altro paio di melense minchiate in nome dell’amor, lei lo allontana indecisa. Stacco.

Da un terreno arido e brullo due mani tirano fuori una cipolla di nove chili, chi lo coltiva non può essere altro che il Jason. Passano cinque minuti per far capire che lui è il padre di famiglia saggio e lavoratore, ha un figlio di sette-otto anni che diverrà anche lui padre di famiglia saggio e lavoratore. Il Jason è lì che gli fa la morale sull’esser saggi e lavoratori quando vede dei corvi sulle sue coltivazioni: tira fuori dalla cintola un boomerang (?!?!?!) di un metro e venti e li manda via. Nel frattempo arriva Ron Perlman con al guinzaglio un maiale, dice anche lui due minchiate sull’esser saggi e lavoratori e si autoinvita a cena. La cena è preparata dalla moglie di Fattore (sì, per oggi pomeriggio si chiama così il Jason), una gnocca a sei piani che dimostra che l’esser saggi e lavoratori qualcosa paga. L’indomani lei e il figlio vanno al mercato, Fattore Statham va a coltivare il suo orticello brullo ma con rape da guinness e…
Saggio e lavoratore, saggio e lavoratore...

…vedo una cosa che non avrei mai voluto vedere: Fattore viene attaccato da una manica di orchetti (sì, orchetti) di gomma piuma che sembrano usciti da Hercules. Io crollo. Un film che già vedi che è brutto (il che non è necessariamente un male) t’inciampa sull’orchetto e vola nel baratro. A un quarto d’ora dall’inizio.
Da qui in poi è un’escalation: due ore di Hercules + Signore degli anelli, ma tendente a Hercules. Gli sceneggiatori si sono detti: «dobbiamo fare un film da un videogioco ambientato nel medioevo: mischiamo a cazzo i personaggi di Tolkien fregandocene di tutti i messaggi politici del libro che tanto non interessano a nessuno, cinque minuti e hai elfi, maghi e quant’altro; poi tanto il re è sempre saggio, la bella del film viene rapita, lui si scopre essere il figlio del re anche se è solo un contadino, quattro dialoghi ad minchiam fatti veramenteveramente male, un po’ di computer e poi cannone della buona notte.». Va così: la ragazza che si fa intortare da Ray Liotta è la figlia del mago buono e si fa inseguire dagli orchetti a cavallo (proprio come Liv Tyler, ma cessa), gli elfi vivono nel bosco battendosene del mondo esterno ma si convincono a dare una mano a Burt Reynolds nella battaglia sotto la pioggia simil Fosso di Helm, Ray Liotta ha la fabbrica di orchi costruita in un vulcano da “Caron dimonio dagli occhi di bragia” e li comanda facendosi flash come Frodo quando s’infila l’anello, e mi fermo sennò piango.
Quando c'eravamo noi era tutta un'altra storia...
Sorvolando sulla presenza in una foresta inglese nel medioevo di guerrieri giapponesi (gli immortali - si chiamavano così? - di 300) e su quell’estetica da telefilm finto epico anni ’90, In the Name of the King si rivela miserrimo (parolone), nonostante  si veda Jason Statham correre a papera sulle teste degli orchetti: anche i dialoghi sono disarmanti, e le ambientazioni pure, per risollevare il tutto ci sarebbero voluti Kevin Sorbo, Iolao e almeno un altro paio di milioni di dollari.

Hai appena fatto Crank, perché Jason?

Tanto per cominciare: "Torque - Circuiti di fuoco"


Leggenda vuole che quando si è usciti dal cinema dopo aver visto Fast Five, caricato come un ossesso da Vincenzino Gasolio e compagnia il compare Lucio abbia preso in Via del Pollaiuolo una retro agli 80 al grido di “Dominique Toretto!”. Risultato: sdraiato dopo metri numero di: due un panettone del traffico. Bambini non fatelo a casa.

Preso benissimo dal genere “Film tamarri con gente che quando guida fa i pezzi e quando fa a botte pure” sono andato a cercare un po’ in giro materia analoga per le mie pupille gustative e mi imbatto in un misconosciuto Torque – Circuiti di fuoco; vedo che ci son le moto e che c’è Ice Cube. Lo guardo in quanto dovere morale (non tanto per Ice Cube, ma per il concetto di moto + Ice Cube).
California: sulla più classica delle autostrade deserte che attraversano il deserto due macchine ovviamente supergiapponesissime e ovviamente una gialla e una rossa stanno giocando a fare il logo Mastercard prendendosi a fiancate, vengono interrotte nel loro garrulo divertissement da un motociclista che gli passa in mezzo IMPENNANDO. Va così forte (almeno 400 all’ora) che in pieno stile Looney Tunes fa roteare un cartello con scritto  “cars sucks”. Io che ho appena visto Vincenzino 5 mi inalbero. Arrivati all’autogrill che in ogni film è sempre a 100 metri dall’azione appena svolta il bellissimo di Rete 4 in moto le suona ai due della Mastercard e dice guardando il pubblico manco fosse Barnes in The Great Train Robbery: “mi dite perché guidare la macchina fa diventare tanto stronzi?!?!”. Io che ho appena visto Vincenzino 5 mi inalbero. Anche se non guido dal 2006.
Fare i pirla perché c'è strada libera? Non ha prezzo.

Inutile raccontare il resto della trama perché tanto si sa già tutto: il cattivone megagrosso (un Matt Schulze che ha rubato i capelli  a Rod Stewart) ha incastrato il protagonista (tale Martin Henderson: pare abbia recitato in Skagerrak, ognuno tiri le conclusioni che preferisce) nascondendogli della droga in alcune moto e così, assieme alla bella del film che vende pezzi di ricambio, ai suoi amici centauri ed a una gang di nigga hippoppettari che vanno in moto (?!?!?!?!?!??) comandati da Ice Cube, il nostro bellissimo di Rete4 deve sistemare la situazione. In linea con le aspettative.
Gli aspetti positivi: il regista, Joseph Kahn, ha fatto i video per i Backstreet Boys e per Britney. È preparato.

- T'abbummo -
-Bada... -
Punti deboli: “Mamma tu sei bianca, papà è nero, perché io sono giallo?” “Figliolo, dopo quell’orgia ringrazia che non abbai”: Torque è un pout pourri venuto male, scopiazza a destra e a manca neppure sia Sugar Fornaciari. Ok, sei un produttore di The Fast and the Furious e hai visto che le macchinone tirano più di un carro di buoi, però non è che se aspetti due anni (Torque è del 2004), ci metti le moto più una manica di effettoni a minchia allora hai lo stesso  risultato. Poi: va bene che Stone Cold – Forza d’urto è un capolavoro, ma negli anni ’80 i metallari che vanno sui chopper erano un alternativa credibile, dodici anni dopo sembrano solo un nugolo di neonazi messi lì per far risaltare la varietà razziale (gli amici del bellissimo di Rete4 sono uno orientale e uno ispanico, poi ci sono i nigga, ma il protagonista figo è tassativamente caucasico – strano, no?). In più: la tipa di Matt Schulze è la copia metallara e arrapata della compagna di Jeremy Irons in Die Hard – Duri a morire; i dialoghi sono presi a caso da una puntata a caso dei Power Rangers e gli inseguimenti sono degni del più classico dei western, tra polvere e sparatorie (però cazzo sei in moto, non a cavallo…). Insomma, io posso accettare di tutto e accetto anche questo, ma ad una sola condizione: il protagonista. Uno che cita il buon Vin dicendo “Io vivo la vita a un quarto di miglio alla volta” non può essere il perfettino bellissimo da high school, avere gli occhi inutilmente azzurri e il sorriso Durbans da furbetto che dice sono molto più figo di te, deve pesare almeno trenta chili in più e avere la faccia del tipo se mi guardi ti ammazzo. Insomma, è Paul Walker con acconciatura da surfista, ha il vento nei capelli anche in ascensore e non si spettina neppure dopo un’ora e mezzo di un film dove fa metti e togli col casco almeno trenta volte.

- Sono troppo il più yeah -
Torque vuole essere tamarro ma figo, e sbaglia di grosso: avesse usato un attore con la faccia torva a caso sarebbe stato un film brutto, ma apprezzabile (l’inseguimento in moto sui tetti di un treno è uno spasso), in questo modo è la versione iùèsèi dei Power Rangers, ma senza Megazord.