“She leads me through moonlight, only to burn me with the sun. She’s taken my heart but she doesn’t know what she’s done.”

Sono
passati solo due anni dalla sua scomparsa e lo ricordo sempre con grande
affetto e con tristezza, perché ricordare Patrick in questi tempi
cinematografici molto cupi ti addolora. Un dolore grande, forte, lo stesso
dolore che ti danno i tuoi amici il sabato sera, quando con una birra media ti
tirano fuori traumi legati alla tua infanzia che hai temporaneamente rimosso:
la coppia di ricci in autostrada ne “Le avventure del bosco piccolo”, Maisha
che si rivela a Masai in “Galaxy Express 999” , la fiamma vietnamita di Rambo che muore
in “Rambo II - La Vendetta ”,
la morte di Fudo della montagna in “Ken il Guerriero”(basta così, sto già
lacrimando abbastanza).
Si
diceva che Patrick fosse l’unico a metter d’accordo uomini e donne, anziani e
bambini che li sporcano con la palla in spiaggia, cani e gatti, Maradona e
Pelè, carnivori e vegetariani (no quello è impossibile). Era uno di famiglia,
diciamocelo pure, perché quando lo vedevi sul grande schermo ti ricordava
sempre qualcuno dei tuoi amici o dei tuoi familiari: la sua faccia sorridente
ti trasmetteva serenità, come il nonno che ti portava via quando i genitori
litigavano; la faccia terrorizzata ti ricorda l’amico che fa foto solo con le
espressioni da idiota, seduto su una panchina della fermata della metro. E
quando stava per piangere? Ragazzi, quella è la tipica espressione del vostro
cuginetto che addenta di gusto per la prima volta uno spicchio di limone e si
rende conto che è aspro.
Le
sue capacità di attore e ballerino hanno reso dei must due film che
sostanzialmente potevano essere ininfluenti nel mondo cinematografico: “Dirty
Dancing” (1987) e “Ghost - Fantasma” (1990). Ma ce ne sono almeno altri tre di
grande importanza: “I ragazzi della 56esima strada” (1983), “Alba d’acciaio”
(1987) e “Point Break” (1991). E poi ce n’è ancora un altro, che sta in un
mondo a parte e che ha segnato la mia infanzia-adolescenza, in modo positivo.
IL
PATRICK BOUNCER - IL DURO DEL ROAD HOUSE (1989)
Sei
bambino alla fine degli anni ’90. Se i tuoi genitori hanno previsto per te
un’educazione completa, hanno lasciato che “Bim Bum Bam” e 7Gold diventassero i
tuoi genitori televisivi e formassero il tuo carattere e i tuoi valori sin
dalla tenera età di 3 anni. Se così è stato, hai visto qualsiasi tipo di
cartone possibile e inimmaginabile dai bambini degli anni ’00, rincoglioniti da
spazzatura che ti insegna solo a non perdere tempo. Soprattutto hai visto e
rivisto film d’azione, comici e horror che sono poi diventati patrimonio comune
di quell’ultima generazione di ragazzi nati fra la metà degli anni ’80 e
l’inizio dei ’90. Adesso è diverso, non si può più tornare indietro e la
fantasia sembra un retaggio del passato. Adesso c’è “Twilight”, talmente falso
e smielato che ti viene voglia di spezzare la rotula al vampiro, ci sono i film
di Moccia, che ti insegnano a darla via ad un 40enne (Alessandra docet di
nuovo); in campo musicale c’è Justin Bieber che prenderesti allegramente a
calci sui denti, Lady Gaga che, in un mare di totale povertà artistica, sembra
Gesù sceso in terra perché non fa solo i pezzi campionati, ma sa fare anche tre
accordi al pianoforte. Questo per farvi capire solo quali sono i fenomeni da
baraccone che vendono di più.
È
una calda sera estiva. Puoi rimanere alzato anche se sei piccolo, perché il
giorno dopo non hai scuola, ma c’è un problema non indifferente: ti stai
annoiando da morire. In cucina i tuoi genitori guardano quelle fastidiose
miniserie italiane sulla mafia, sui rapimenti, tutte con lo stesso nome, che
rubano due serate (se va bene) in prima visione tv. Sulla Rai l’unico programma
interessante è Quark, tenuto da un sempre vecchio Piero Angela, longevo come un
ginko biloba, ma a questo giro gli accoppiamenti fra felini e il viaggio di
Alberto fra le rovine dell’antica Roma non ti interessano. C’è solo una cosa
che può vincere la noia e che stai aspettando come le tavole della legge: i
bellissimi di Rete 4.
Lungi
da me incensare Mediaset e soprattutto Rete 4, la rubrica “I bellissimi” ha
formato tantissimi ragazzi, non c’è niente da fare. I migliori e peggiori film
d’azione, gli horror con e senza personalità, le commedie trash italiane a
episodi o comunque senza un filo logico sono passati tutti lì, in quella
dimensione da seconda serata delle 23.00 con l’immancabile bollino rosso, non
adatto ai bambini. Ma te ne freghi, non hai avuto paura quando It il pagliaccio
ha terrorizzato nella doccia Eddie “spaghetti” Kasbrak, né dell’alien
puntualmente ucciso dal tenente Ripley.
Ecco
il film! Dopo la rognosa pubblicità, si aprono i titoli di testa: locale anni
’80 con la musica rock degli anni ’80 e la canonica ragazza un po’ bionda che
scenda dal suo ferrari. Si apre così “Il duro del Road House”.
Diretto
da Rowdy Harrington, un regista al debutto e successivamente molto produttivo
(4 film in 21 anni), “Il duro del Road House” esce nel 43 D.S. (Dopo Stallone),
ovvero nel 1989 secondo il calendario gregoriano e rappresenta, infatti, una
delle ultime zampate dei gloriosi anni ’80, quando le batterie elettroniche, le
canzoni pompate con i sintetizzatori (coimbra
portugaaaaaaaaaal…mi viene in mente una canzone!) e i capelli cotonati,
lunghi, comunque folti erano ancora all’ordine del giorno. Nel 1990 tutto
questo diventerà obsoleto e vecchio, arriverà “Mamma ho perso l’aereo” e
rideremo amaramente per 5 minuti sull’urlo di Joe Pesci con la testa in fiamme,
perché rifletterà un genere di film che farà la fortuna dell’industria
cinematografica per un ventennio, soprattutto in Italia. Ma questa è un’altra
storia.
La
trama? Riassumibile a grandi linee con poche parole: Dalton (Patrick Swayze),
un laureato in filosofia, fa il buttafuori al Double Deuce, un locale malfamato
di Jasper e protegge la città dal boss locale.
Un
paio di considerazioni:
1) L’ultima
volta che avevo sentito il nome Dalton avevo 7 anni, davano in tv le repliche
di “Lucky Luke” con Terence Hill e i cattivi erano i fratelli Dalton.
2)
Un laureato in filosofia che si reinventa come buttafuori, senza uno straccio
di contratto. Swayze ha anticipato il nostro futuro di precari senza il posto
fisso.
Sottigliezze,
sia chiaro, perché in questo film c’è tutto quello che volevate per dare un
calcio rotante agli sbadigli: personaggi che menano in qualsiasi modo e per
qualsiasi motivo possibile, tavoli e sedie distrutte con forme geometriche
inedite, bottiglie volanti che finiscono ovunque e in faccia a chiunque,
stecche da biliardo usate come mazze e lamette che spuntano dagli stivali. Ah
sì nel caso non lo aveste capito c’è pure il sangue, che è conseguenza di
quanto scritto prima.
Innanzitutto
solo Dalton potrebbe valere la visione, perché è quel buttafuori atipico che
può apparire solamente nei film: non è grosso, non è alto, è un belvedere per
il gentil sesso, non guarda la tv nel tempo libero, ma legge e si allena, beve
quasi esclusivamente caffè per rimanere lucido e mantiene sempre la calma, che
è indice di tremendo fastidio per i suoi stolti avversari. Questi dettagli non
devono farvi distrarre da una cosa, ovvero che se gli pesti un piede Dalton ti
fa diventare una maschera di dolore e ti rimanda a casa con una rotula di meno.
Il miglior buttafuori filosofo del 1989 farà tre cose per tutto il film:
picchiare, dirigere il locale e i buttafuori di supporto e lanciare consigli e
qualche frase ad effetto.
Ho
parlato di buttafuori di supporto? Ebbene sì, perché rimettere in sesto un
locale malfamato come il Double Deuce ha bisogno di almeno un altro paio di
buttafuori. Per carità, Dalton potrebbe vincere da solo contro 50 persone, ma
dal momento che è già il protagonista assoluto, il buon Rowdy ha deciso di non
dargli un’ulteriore aura mistica e di affiancargli altre tre figure: un tipo
biondo che è il più forte dei buttafuori di supporto, un altro che è il tipico
grasso svampito alla John Candy, un terzo non troppo definito, si limita
semplicemente a menare sotto il comando di Dalton.
Il
cattivone di turno è Brad Wesley, il tipico vecchio boss che si è fatto da solo
derubando la città, veste bene, finge diplomazia davanti al nemico e poi gli fa
fare una brutta fine. Wesley controlla la città e ha messo i suoi uomini al
Double Deuce, in particolare il nipotino Pat, membro ad honorem
dell’organizzazione di cattivi degli anni ’80, dal nome “Uomini da prendere a
pizze in the face”. Arriva ovviamente Dalton e li licenzia tutti e poi per
nostra immensa gioia spacca la faccia a Pat; potrete immaginare la reazione di
Brad. Gli scagnozzi del boss sono come i cattivi nei film di Bud Spencer: forti
nella misura in cui devono picchiare uomini più deboli di loro e birilli da
bowling quando si trovano davanti uomini più forti, in questo caso Dalton e i
suoi amici.
Viste
così le cose potrebbero essere facili ma Wesley ha il suo scagnozzo n°1, lo
psicopatico Jimmy, il classico picchiatore violentissimo che acquisisce peso
nell’ultima parte del film, forte quanto Dalton ma senza il suo cuore e
ricordatevi che col cuore si vince.
Però
ho parlato di tutti tranne che di lui, del mio personaggio preferito del film.
Un uomo che del buttafuori non c’ha niente ed è un po’ come Newman in Baywatch.
Ve lo ricordate Newman? Sempre presente in ogni serie, stempiato e villoso, era
l’antitesi dei guardaspiaggia uomini e donne: col fisico scolpito e bellocci
gli uomini, bombastiche e dal sapore di bionda (anche se alcune di loro non lo
erano) le donne, sempre con i capelli e col trucco al proprio posto.
Il
Newman del film è Wade Garrett, interpretato da un grande Sam Walliot, un
personaggio secondario di tutto rispetto. Descritto come la leggenda dei
buttafuori, ormai invecchiato e zoppicante, ha il look alla Toki di Ken il
Guerriero ed è vizioso come Gigi la trottola, ma non si tira indietro quando
deve aiutare il suo pupillo Dalton; avrebbe meritato più spazio, se non altro
per aver citato Rambo mentre rabbonisce un marines nel locale: “Datti una calmata Rambo, lo so che vuoi
salvare il mondo dai rossi, ma qui non ne vedo!”.
In
un film degli anni ’80 non possono mancare le figure femminili gnocche,
bombastiche e preferibilmente bionde e “Il duro del Road House” non fa certo l’eccezione,
perché la pupa bionda e imbecille è in questo caso la donna del boss e assume
il nome di Denise. Nonostante questa scontata biondità, il film realizza il
colpo di classe inaspettato: se il protagonista maschile è un laureato in
filosofia, la protagonista femminile, bionda (si intende), gnocca e di un certo
livello deve avere un’alta professione per sfatare il tabù della bionda gallina
e così entra in scena Elizabeth, la dottoressa dell’ospedale locale. Sguardo
intelligente, voce normale e non stridula, prevedibilmente disserta di
filosofia con Dalton, perché con Swayze nei paraggi è impossibile che non possa
scoppiare la passione e quindi l’amore.
Una
dedica speciale va invece a Jeff Healey, grandissimo chitarrista e cantante
blues che c’ha lasciato troppo presto. Jeff compare nel film nella parte di
Cody, cantante/chitarrista del gruppo rock-blues del Double Deuce e grande
amico di Dalton.
Rimasto
cieco a un anno per un retinoblastoma, imparò a suonare la chitarra
appoggiandola sulle gambe, dal momento che nessuno si era premurato di
spiegargli come si imbracciava. Questo gli permise di usare anche il pollice,
il dito che si appoggia sul manico della chitarra, e di sviluppare così una
tecnica innovativa. Il suo disco più famoso è “See The Light”, l’album
d’esordio del 1988 (e che esordio!), ma la sua discografia si attesta comunque
su livelli molto buoni; quindi ve lo consiglio caldamente perché sarebbe un
errore imperdonabile farvi scappare questo immenso talento del blues.
Jeff
suonerà la maggior parte delle canzoni che compongono la colonna sonora del
film, cover blues suonate con grande classe e che si adattano perfettamente
alle risse, due su tutte:
1) La cover di “I’m Tore Down”
mentre Dalton e i suoi amici le suonano di santa ragione agli scagnozzi di
Wesley, fuori dal Double Deuce. Quella è una scena epica.
2) La cover di “Hoochie Coochie
Man” durante lo scontro Wade-Dalton vs Jimmy. Lì mi sono veramente emozionato e
ho iniziato a incitare Wade, mi mancava giusto la manona con l’indice, tipica delle
partite di baseball.
Non
farete mai in tempo ad annoiarvi, neanche ad andare in bagno, perché questo
film non ve lo permetterà: ogni serata del Double Deuce è un grande calderone
dove si menano tutti senza scrupoli e così va progressivamente avanti verso un
finale che non potrà deludervi. Non ci sono battute alla “Tango & Cash” e
chiaramente non è un film dove si vedono solamente scazzottate anzi, Dalton vi
porterà in giro per Jasper, conoscerete le personalità più conosciute della
città, sottomesse a Wesley e inizierete a simpatizzare per quel piccolo
paesino, fatto di persone oneste e dall’aspetto country. È un film più
drammatico di come ve l’ho descritto, perché dalle risse non esce vincitore mai
nessuno, come dice Dalton e perché la malvagità di Wesley, un uomo che non si
ferma davanti a niente e a nessuno, vi farà pulsare il sangue nelle vene.
Allora sì, anche voi che non siete violenti e che giustamente alzate le mani
solo in caso di difesa, giustificherete i cazzotti, i tavoli rotti e il sangue
che esce dappertutto.
Alla
luce di questo film mi sono chiesto come sarebbe potuto essere “The
Expendables” se Patrick fosse stato vivo e avesse preso parte al film:
sicuramente avrebbe fatto sentire amato il povero Jet Li e avrebbe spiegato a
Dolph Lundgren le regole della gentilezza.