domenica 16 ottobre 2011

Special Revaival Memorial: Il duro del Road House - 1989

 Seconda puntata - la prima è un manifesto, una dichiarazione d'intenti - della rubrica dedicata ai ricordi di chi a vent'anni ha già nostalgia di qualcosa. E ci ha i suoi motivi ci ha diamine! Signore e signori, a voi l'opera seconda di Marco Cullorà.



“She leads me through moonlight, only to burn me with the sun. She’s taken my heart but she doesn’t know what she’s done.”

Non esisteva modo migliore per onorare la memoria di Patrick Swayze se non con “She’s Like The Wind”, canzone che c’ha fatto commuovere in “Dirty Dancing”; con quel film migliaia di ragazzi hanno sognato di incontrare una ragazza con un visino dolce dolce come Baby e migliaia di ragazze di farsi prendere in braccio da Johnny Castle. E la frase “Nessuno mette Baby in un angolo”? Un must che solo Patrick poteva fare con quel suo sguardo intenso, con quella convinzione tipica di chi sa che cosa sta facendo. Un ragazzo normale dopo aver detto quella frase sarebbe stato inseguito dal padre della ragazza, armato di fucile e con i cani sguinzagliati. Patrick però non era normale: aveva i suoi occhi azzurri magnetici, i suoi capelli anni ’60 e il 45 giri di “Time Of Your Life”, un pezzo del 1987 messo nel 1963 (ma come, non ti ricordi? Si chiama futurismo cinematografico! Te l’ha detto Alessandra! Ecco, Alessandra è una ragazza che ne sa a pacchi sul cinema).

Sono passati solo due anni dalla sua scomparsa e lo ricordo sempre con grande affetto e con tristezza, perché ricordare Patrick in questi tempi cinematografici molto cupi ti addolora. Un dolore grande, forte, lo stesso dolore che ti danno i tuoi amici il sabato sera, quando con una birra media ti tirano fuori traumi legati alla tua infanzia che hai temporaneamente rimosso: la coppia di ricci in autostrada ne “Le avventure del bosco piccolo”, Maisha che si rivela a Masai in “Galaxy Express 999”, la fiamma vietnamita di Rambo che muore in “Rambo II - La Vendetta”, la morte di Fudo della montagna in “Ken il Guerriero”(basta così, sto già lacrimando abbastanza).

Si diceva che Patrick fosse l’unico a metter d’accordo uomini e donne, anziani e bambini che li sporcano con la palla in spiaggia, cani e gatti, Maradona e Pelè, carnivori e vegetariani (no quello è impossibile). Era uno di famiglia, diciamocelo pure, perché quando lo vedevi sul grande schermo ti ricordava sempre qualcuno dei tuoi amici o dei tuoi familiari: la sua faccia sorridente ti trasmetteva serenità, come il nonno che ti portava via quando i genitori litigavano; la faccia terrorizzata ti ricorda l’amico che fa foto solo con le espressioni da idiota, seduto su una panchina della fermata della metro. E quando stava per piangere? Ragazzi, quella è la tipica espressione del vostro cuginetto che addenta di gusto per la prima volta uno spicchio di limone e si rende conto che è aspro.

Le sue capacità di attore e ballerino hanno reso dei must due film che sostanzialmente potevano essere ininfluenti nel mondo cinematografico: “Dirty Dancing” (1987) e “Ghost - Fantasma” (1990). Ma ce ne sono almeno altri tre di grande importanza: “I ragazzi della 56esima strada” (1983), “Alba d’acciaio” (1987) e “Point Break” (1991). E poi ce n’è ancora un altro, che sta in un mondo a parte e che ha segnato la mia infanzia-adolescenza, in modo positivo.

IL PATRICK BOUNCER - IL DURO DEL ROAD HOUSE (1989)

Sei bambino alla fine degli anni ’90. Se i tuoi genitori hanno previsto per te un’educazione completa, hanno lasciato che “Bim Bum Bam” e 7Gold diventassero i tuoi genitori televisivi e formassero il tuo carattere e i tuoi valori sin dalla tenera età di 3 anni. Se così è stato, hai visto qualsiasi tipo di cartone possibile e inimmaginabile dai bambini degli anni ’00, rincoglioniti da spazzatura che ti insegna solo a non perdere tempo. Soprattutto hai visto e rivisto film d’azione, comici e horror che sono poi diventati patrimonio comune di quell’ultima generazione di ragazzi nati fra la metà degli anni ’80 e l’inizio dei ’90. Adesso è diverso, non si può più tornare indietro e la fantasia sembra un retaggio del passato. Adesso c’è “Twilight”, talmente falso e smielato che ti viene voglia di spezzare la rotula al vampiro, ci sono i film di Moccia, che ti insegnano a darla via ad un 40enne (Alessandra docet di nuovo); in campo musicale c’è Justin Bieber che prenderesti allegramente a calci sui denti, Lady Gaga che, in un mare di totale povertà artistica, sembra Gesù sceso in terra perché non fa solo i pezzi campionati, ma sa fare anche tre accordi al pianoforte. Questo per farvi capire solo quali sono i fenomeni da baraccone che vendono di più.

È una calda sera estiva. Puoi rimanere alzato anche se sei piccolo, perché il giorno dopo non hai scuola, ma c’è un problema non indifferente: ti stai annoiando da morire. In cucina i tuoi genitori guardano quelle fastidiose miniserie italiane sulla mafia, sui rapimenti, tutte con lo stesso nome, che rubano due serate (se va bene) in prima visione tv. Sulla Rai l’unico programma interessante è Quark, tenuto da un sempre vecchio Piero Angela, longevo come un ginko biloba, ma a questo giro gli accoppiamenti fra felini e il viaggio di Alberto fra le rovine dell’antica Roma non ti interessano. C’è solo una cosa che può vincere la noia e che stai aspettando come le tavole della legge: i bellissimi di Rete 4.
Lungi da me incensare Mediaset e soprattutto Rete 4, la rubrica “I bellissimi” ha formato tantissimi ragazzi, non c’è niente da fare. I migliori e peggiori film d’azione, gli horror con e senza personalità, le commedie trash italiane a episodi o comunque senza un filo logico sono passati tutti lì, in quella dimensione da seconda serata delle 23.00 con l’immancabile bollino rosso, non adatto ai bambini. Ma te ne freghi, non hai avuto paura quando It il pagliaccio ha terrorizzato nella doccia Eddie “spaghetti” Kasbrak, né dell’alien puntualmente ucciso dal tenente Ripley.
Ecco il film! Dopo la rognosa pubblicità, si aprono i titoli di testa: locale anni ’80 con la musica rock degli anni ’80 e la canonica ragazza un po’ bionda che scenda dal suo ferrari. Si apre così “Il duro del Road House”.

Diretto da Rowdy Harrington, un regista al debutto e successivamente molto produttivo (4 film in 21 anni), “Il duro del Road House” esce nel 43 D.S. (Dopo Stallone), ovvero nel 1989 secondo il calendario gregoriano e rappresenta, infatti, una delle ultime zampate dei gloriosi anni ’80, quando le batterie elettroniche, le canzoni pompate con i sintetizzatori (coimbra portugaaaaaaaaaal…mi viene in mente una canzone!) e i capelli cotonati, lunghi, comunque folti erano ancora all’ordine del giorno. Nel 1990 tutto questo diventerà obsoleto e vecchio, arriverà “Mamma ho perso l’aereo” e rideremo amaramente per 5 minuti sull’urlo di Joe Pesci con la testa in fiamme, perché rifletterà un genere di film che farà la fortuna dell’industria cinematografica per un ventennio, soprattutto in Italia. Ma questa è un’altra storia.

La trama? Riassumibile a grandi linee con poche parole: Dalton (Patrick Swayze), un laureato in filosofia, fa il buttafuori al Double Deuce, un locale malfamato di Jasper e protegge la città dal boss locale.
Un paio di considerazioni:

1) L’ultima volta che avevo sentito il nome Dalton avevo 7 anni, davano in tv le repliche di “Lucky Luke” con Terence Hill e i cattivi erano i fratelli Dalton.
2) Un laureato in filosofia che si reinventa come buttafuori, senza uno straccio di contratto. Swayze ha anticipato il nostro futuro di precari senza il posto fisso.

Sottigliezze, sia chiaro, perché in questo film c’è tutto quello che volevate per dare un calcio rotante agli sbadigli: personaggi che menano in qualsiasi modo e per qualsiasi motivo possibile, tavoli e sedie distrutte con forme geometriche inedite, bottiglie volanti che finiscono ovunque e in faccia a chiunque, stecche da biliardo usate come mazze e lamette che spuntano dagli stivali. Ah sì nel caso non lo aveste capito c’è pure il sangue, che è conseguenza di quanto scritto prima.
Innanzitutto solo Dalton potrebbe valere la visione, perché è quel buttafuori atipico che può apparire solamente nei film: non è grosso, non è alto, è un belvedere per il gentil sesso, non guarda la tv nel tempo libero, ma legge e si allena, beve quasi esclusivamente caffè per rimanere lucido e mantiene sempre la calma, che è indice di tremendo fastidio per i suoi stolti avversari. Questi dettagli non devono farvi distrarre da una cosa, ovvero che se gli pesti un piede Dalton ti fa diventare una maschera di dolore e ti rimanda a casa con una rotula di meno. Il miglior buttafuori filosofo del 1989 farà tre cose per tutto il film: picchiare, dirigere il locale e i buttafuori di supporto e lanciare consigli e qualche frase ad effetto.
Ho parlato di buttafuori di supporto? Ebbene sì, perché rimettere in sesto un locale malfamato come il Double Deuce ha bisogno di almeno un altro paio di buttafuori. Per carità, Dalton potrebbe vincere da solo contro 50 persone, ma dal momento che è già il protagonista assoluto, il buon Rowdy ha deciso di non dargli un’ulteriore aura mistica e di affiancargli altre tre figure: un tipo biondo che è il più forte dei buttafuori di supporto, un altro che è il tipico grasso svampito alla John Candy, un terzo non troppo definito, si limita semplicemente a menare sotto il comando di Dalton.

Il cattivone di turno è Brad Wesley, il tipico vecchio boss che si è fatto da solo derubando la città, veste bene, finge diplomazia davanti al nemico e poi gli fa fare una brutta fine. Wesley controlla la città e ha messo i suoi uomini al Double Deuce, in particolare il nipotino Pat, membro ad honorem dell’organizzazione di cattivi degli anni ’80, dal nome “Uomini da prendere a pizze in the face”. Arriva ovviamente Dalton e li licenzia tutti e poi per nostra immensa gioia spacca la faccia a Pat; potrete immaginare la reazione di Brad. Gli scagnozzi del boss sono come i cattivi nei film di Bud Spencer: forti nella misura in cui devono picchiare uomini più deboli di loro e birilli da bowling quando si trovano davanti uomini più forti, in questo caso Dalton e i suoi amici.
Viste così le cose potrebbero essere facili ma Wesley ha il suo scagnozzo n°1, lo psicopatico Jimmy, il classico picchiatore violentissimo che acquisisce peso nell’ultima parte del film, forte quanto Dalton ma senza il suo cuore e ricordatevi che col cuore si vince.
Però ho parlato di tutti tranne che di lui, del mio personaggio preferito del film. Un uomo che del buttafuori non c’ha niente ed è un po’ come Newman in Baywatch. Ve lo ricordate Newman? Sempre presente in ogni serie, stempiato e villoso, era l’antitesi dei guardaspiaggia uomini e donne: col fisico scolpito e bellocci gli uomini, bombastiche e dal sapore di bionda (anche se alcune di loro non lo erano) le donne, sempre con i capelli e col trucco al proprio posto.
Il Newman del film è Wade Garrett, interpretato da un grande Sam Walliot, un personaggio secondario di tutto rispetto. Descritto come la leggenda dei buttafuori, ormai invecchiato e zoppicante, ha il look alla Toki di Ken il Guerriero ed è vizioso come Gigi la trottola, ma non si tira indietro quando deve aiutare il suo pupillo Dalton; avrebbe meritato più spazio, se non altro per aver citato Rambo mentre rabbonisce un marines nel locale: “Datti una calmata Rambo, lo so che vuoi salvare il mondo dai rossi, ma qui non ne vedo!”.

In un film degli anni ’80 non possono mancare le figure femminili gnocche, bombastiche e preferibilmente bionde e “Il duro del Road House” non fa certo l’eccezione, perché la pupa bionda e imbecille è in questo caso la donna del boss e assume il nome di Denise. Nonostante questa scontata biondità, il film realizza il colpo di classe inaspettato: se il protagonista maschile è un laureato in filosofia, la protagonista femminile, bionda (si intende), gnocca e di un certo livello deve avere un’alta professione per sfatare il tabù della bionda gallina e così entra in scena Elizabeth, la dottoressa dell’ospedale locale. Sguardo intelligente, voce normale e non stridula, prevedibilmente disserta di filosofia con Dalton, perché con Swayze nei paraggi è impossibile che non possa scoppiare la passione e quindi l’amore.

Una dedica speciale va invece a Jeff Healey, grandissimo chitarrista e cantante blues che c’ha lasciato troppo presto. Jeff compare nel film nella parte di Cody, cantante/chitarrista del gruppo rock-blues del Double Deuce e grande amico di Dalton.
Rimasto cieco a un anno per un retinoblastoma, imparò a suonare la chitarra appoggiandola sulle gambe, dal momento che nessuno si era premurato di spiegargli come si imbracciava. Questo gli permise di usare anche il pollice, il dito che si appoggia sul manico della chitarra, e di sviluppare così una tecnica innovativa. Il suo disco più famoso è “See The Light”, l’album d’esordio del 1988 (e che esordio!), ma la sua discografia si attesta comunque su livelli molto buoni; quindi ve lo consiglio caldamente perché sarebbe un errore imperdonabile farvi scappare questo immenso talento del blues.
Jeff suonerà la maggior parte delle canzoni che compongono la colonna sonora del film, cover blues suonate con grande classe e che si adattano perfettamente alle risse, due su tutte:

1)      La cover di “I’m Tore Down” mentre Dalton e i suoi amici le suonano di santa ragione agli scagnozzi di Wesley, fuori dal Double Deuce. Quella è una scena epica.
2)      La cover di “Hoochie Coochie Man” durante lo scontro Wade-Dalton vs Jimmy. Lì mi sono veramente emozionato e ho iniziato a incitare Wade, mi mancava giusto la manona con l’indice, tipica delle partite di baseball.


Non farete mai in tempo ad annoiarvi, neanche ad andare in bagno, perché questo film non ve lo permetterà: ogni serata del Double Deuce è un grande calderone dove si menano tutti senza scrupoli e così va progressivamente avanti verso un finale che non potrà deludervi. Non ci sono battute alla “Tango & Cash” e chiaramente non è un film dove si vedono solamente scazzottate anzi, Dalton vi porterà in giro per Jasper, conoscerete le personalità più conosciute della città, sottomesse a Wesley e inizierete a simpatizzare per quel piccolo paesino, fatto di persone oneste e dall’aspetto country. È un film più drammatico di come ve l’ho descritto, perché dalle risse non esce vincitore mai nessuno, come dice Dalton e perché la malvagità di Wesley, un uomo che non si ferma davanti a niente e a nessuno, vi farà pulsare il sangue nelle vene. Allora sì, anche voi che non siete violenti e che giustamente alzate le mani solo in caso di difesa, giustificherete i cazzotti, i tavoli rotti e il sangue che esce dappertutto.
Alla luce di questo film mi sono chiesto come sarebbe potuto essere “The Expendables” se Patrick fosse stato vivo e avesse preso parte al film: sicuramente avrebbe fatto sentire amato il povero Jet Li e avrebbe spiegato a Dolph Lundgren le regole della gentilezza.