venerdì 30 novembre 2012

GHERMINELLA NELL’ASIA MINORE: Argo, 2012



«Affleck Affleck Affleck – che il nome fa un po’ ri-de-re – ma noi non rideremo – per quello che farà»

Tipo così.
Ben Affleck da attore è meglio di no, ma se si mette a fare il regista e fa i pezzi. I pezzi. I PEZZI. Uguale a quelle classiche storie sportive in cui uno comincia a giocare ma poi si rende conto di essere troppo scarso e allora si mette ad allenare, e vince tutto. Phil Jackson e José Mourinho, Pat Riley (quello a cui si è ispirato Oliver Stone per il look di Michael Douglas in Wall Street) e Marcello Lippi, e milioni di altri. Ecco, Ben Affleck è uguale. È al terzo film, o meglio, è al terzo film fatto bene, ma bene bene, e tre indizi fanno una prova.

La prima volta che ho visto il trailer di Argo ho pensato: un altro membro del filone dei film ambientati in Asia minore in cui gli attori democratici si fanno crescere barba e capelli e fanno film di denuncia o interpretando persone più o meno normali.  Three Kings, Syriana, L’uomo che fissa le capre, Argo. Più altri. Alla fine escono sempre dei bei film (per quanto mi riguarda). Parte del merito va a George Clooney, che tenta sempre di costruire progetti interessanti, soprattutto su questi temi.

Qui vedo Ben Affleck e mi dico: «con quei capelli e la barba lunga vuol fare il Clooney della situazione». Il produttore di Argo? George Clooney.

Dato che per parlare di Argo ho cominciato dal suo regista/protagonista, continuo a tesserne le lodi, e poi parlo delle ragioni di questo film, che da bravo autore intelligente Ben Affleck non ha mancato di cogliere, ragioni culturali e storiche spesso trascurate ma che in un modo o nell’altro hanno determinato la vita di tutte le persone. Non sto esagerando.

Partiamo dal contesto storico: l’ayatollah Khomeini fondò una teocrazia sostituendo una monarchia occidentalizzante che qualche vittima l’aveva fatta (le guerre sante si fanno sempre tra santi). Nel corso della rivoluzione islamica, e a seguito della crisi diplomatica intercorsa tra i due paesi a causa dell’asilo dato dagli Stati Uniti allo shah, il 4 novembre del 1979, a Teheran, Iran, i manifestanti assediano l’ambasciata americana. Vengono presi 52 ostaggi, ma sei diplomatici riescono a scappare e a trovare rifugio presso la casa dell’ambasciatore canadese. Argo è la storia di come Tony Mendez, agente CIA, esfiltra i sei da Teheran e li riporta negli Stati Uniti. Argo è anche il titolo del film che Mendez finge di produrre per riportarli a casa, spacciandoli per una troupe per  un film di fantascienza. Con l’aiuto del Canada (per ovvie questioni diplomatiche, e per i restanti 52 ostaggi americani rinchiusi nell’ambasciata) i sei riescono a fuggire. Mossa Kansas City agli studenti coranici e gherminella in Asia minore riuscita. Senza né vittime né violenza. Strano ma vero.

Questa è la storia reale, ed è quello che si vede nel film, riassumibile in due righe: i sei che scappano si rifugiano dall’ambasciatore canadese; Tony Mendez con la scusa di girare un film di fantascienza intitolato Argo va a Teheran con dei documenti falsi e li espatria. Fine. 
Su una storia tanto minima, semplice e lineare viene creato un filmone. Equilibrato sotto tutti gli aspetti, dalla cifra stilistica ai contenuti, che non scade in facili manicheismi né in eroismi di sorta, che non giudica ma che si lascia un margine per criticare tutti,senza distinzioni. Quindi bene.

Il cast è composto da mostri. Il cast è quello su cui si regge ogni parte di questo film. È il cast a dettare le situazioni e i tempi di ogni scena, e nessuno sbaglia mezzo colpo. Per le scene ambientate ad Hollywood Alan Arkin e John Goodman rischiano seriamente di mangiarsi tutto il film palesando doti di califfi a livello 1000, sostenendo la vena umoristica  necessaria a bilanciare le situazioni tese in cui i sei attori che fanno gli ostaggi fanno a gara a chi ti mette più ansia addosso, in un continuo gioco di sguardi ed espressioni terrorizzate e/o angosciate. In senso positivo. Un film in cui il 75% del tempo è fatto di occhiata+sigaretta+baffoni+odiomicagoadosso vuol dire solo una cosa: uno-più-bravo-dell-altro. Il Ben Affleck attore risente di questo contesto, ma è “un normale” in mezzo ai fenomeni.
Tipo così. Argofuckyourself.

Il contesto, appunto. Ben Affleck regista sa quello che fa, ed oltre a maneggiare la tensione con puro sadismo nei confronti degli spettatori (sostenere una storia minima con l’apnea è cosa ottima e difficile, l’ultima mezz’ora del film è da cervicale contratta e unghie nei braccioli), sa che sta facendo un film negli anni ’70. Forse la cazzata delle scatole cinesi qui ha senso. Il cinema nel cinema, gli anni ’70 all’interno del film e fuori, la consapevolezza che in quegli anni si è fatta una parte di storia. Ma ci arriveremo. Comunque zampa d’elefante, baffoni e occhialoni alla Dan Peterson, e Rodrigo Prieto, il direttore della fotografia, che sgranando con lo zoom riesce ad uniformare e allo stesso tempo differenziare i luoghi del film, dando un effetto da quasi documentario in Super8 alle scene ambientate in Iran e quella chiarezza plasticosa un po’ finta da ufficio nelle scene alla sede della CIA (che guarda caso sono uffici, ma se uno vede il film capisce cosa voglio intendere). 
Argouvafanculou! Numerrounouuu!
E poi, tre scene. L’assedio dell’ambasciata, il montaggio parallelo della lettura della recensione del finto film, e un furgoncino che attraversa i manifestanti Iraniani presimale. È CINEMA. CINEMA. PURO. Non si aggiunge altro. 

Il valore di Argo come film, ma soprattutto come storia in sé, è un altro. Ben Affleck se ne rende conto e calca la mano su questo punto, rendendo così il suo film un capolavoro a tutti gli effetti. La vicenda di Argo è avvenuta poco dopo l’uscita del primo di una serie di film che hanno segnato una o forse due epoche della storia dei nostri giorni: Guerre Stellari. Tutto quello che riguarda i finti storyboard all’interno del film è un omaggio, è mostrare la consapevolezza di cosa ha voluto significare in termini di immaginario. E del messaggio su cui si basava.

La Storia in cui si trova quel film, come Guerre Stellari, parla di una rivoluzione (parola che nel cinema è da sempre sostituita con “ribellione”, chissà perché), di una speranza di cambiare le cose. Immagino che gli iraniani che si sono rivoltati contro lo shah avessero anche loro le loro speranze, fossero quali fossero. È finita in una teocrazia, la religione  e la fede di molte persone sono state usate come strumento di potere, come sempre accade. Uguale per Guerre Stellari. Si usa la fantasia di tutte le persone che rimangono incantate per creare un impero commerciale. Io AMO Guerre Stellari, è una passione che mi ha trasmesso mio padre, e all’ultima scena del film mi sono emozionato (chi ha visto sa). Ma c’è un rovescio della medaglia che parla molto bene del mondo. 

La vicenda di Tony Mendez, e la sua idea di girare un film di fantascienza, ha messo in evidenza sin da subito (per quei tempi) un processo molto più ampio che ha cambiato la storia del cinema e dei media, e in definitiva di quella parte del mondo che può concedersi il lusso di decidere cosa mangiare a colazione, pranzo e cena: la fantascienza e in particolare Guerre Stellari hanno cambiato il mondo, hanno dato l’avvio alla rivoluzione dei modi, dei mondi, e dei contenuti, dei mondi contenuti negli altri mondi. Non è un bisticcio, basti guardare al mondo di internet e agli universi in esso contenuti, universi fatti di mondi on line, magari proprio di Star Wars, dove uno che fa l’imbianchino può essere un cavaliere Jedi o uno che fa il dirigente può essere un contadino del pianeta Kashyyyk (sì, con tre ypsilon), o il cognato di Chewbecca. Idee che hanno rivoluzionato il mondo dell’intrattenimento, FUGA per eccellenza a chi anela di essere qualcos’altro, i mondi che coprono tutta la parte di mondo che non sia moda,  giusto per non lasciare nessun bucherello. Il fascino di questi mondi distanti e mirabolanti permette, nel film,  al più rompiballe della compagnia di infinocchiare i soldati all’aeroporto, affascinati partecipanti di un mondo ancora ben al di fuori della fantasmagoria occidentale. Da questa scena credo si possano capire il successo e l’impatto che hanno avuto i franchise, poi internet, poi i franchise attraverso internet; Argo da un certo punto di vista parla anche dell’incontro tra una saga che parla dell’universo fatto di mondi (ancora una volta, scusate) che si scontrano, e un universo completamente a parte dell’occidente, all’interno di un contesto di un pianeta terra ancora culturalmente preglobalizzato. Mio dio quanto siamo postmoderni. 

Tralasciando i pipponi da persona che un paio di domande se le fa (e che potete tranquillamente bollare come dietrologie), Ben Affleck gira questo film con cuore e buona fede: Argo non è un film manicheista, gli americani sono i buoni, ma gli iraniani non sono cattivi, al massimo sono incazzati, fanno la parte degli intesiti per il semplice motivo che venendo da un’altra cultura hanno un modo di comunicare diverso, e il fatto che la storia si risolva pacificamente non manca di sottolineare l’abilità del protagonista, in cui risiede la speranza della moderazione per sperare che gli Stati Uniti non siano un paese così stronzo e ignorante, cosa che non ha mai mancato di sottolineare in tutti gli eventi dal dopoguerra ad oggi (e pure prima). 

Insomma, un film girato con cuore e buona fede. Ed emozionante, in tutti i sensi. 

venerdì 16 novembre 2012

Ma per favore - Le belve (Savages), 2012


Avete presente quelle tipe, solitamente fighe, che vi fanno credere di avere avuto la botta di culo e che staranno con voi senza che dobbiate neppure provarci? Quelle che vi guardano, vi sorridono, voi vi prendete bene, se vi va di stralusso limonate ma poi finisce che tornate a casa e dovete coprirvi la mano (solitamente la destra) di carta vetrata, perché dopo magari mesi finisce sempre con «eh no, sai, ho il ragazzo», oppure «la prossima volta» e quando voi, che mossi da un impeto proveniente dai bassifondi volete credere che una prossima volta ci sarà davvero (illusi), le telefonate ricevendo come risposta «oggi ho lezione, domani dò ripetizioni, giovedì ho il funerale del criceto del mio nipotino, venerdì ci sarà vento e poi tanto il 12 dicembre finisce il mondo». Tradotto: «potrà gelare l’inferno prima che te la dia».

Le care profumiere che al primo istante che le conoscete sembrano delle persone fantastiche e che alla distanza, con l’esperienza, e anche perché non si sono concesse, perdono molto del loro potere, finendo per dire solo una cosa: niente. Delusion in the sky with diamonds.

Metafore sulla patata a parte, il discorso per “Le belve” di Oliver Stone è più o meno lo stesso. Promette bene, e ti strafrega alla grande. Una presa per i fondelli su molti livelli. Rima non voluta, ma gli ingredienti ci sono tutti, a partire da un trailer che ti fa dire: «Paurissima! Benicio Del Toro e il ciccione di Scientology che negli anni ’70 aveva la brillantina e cantava Tell Me More che si massacrano in un film sullo spacciodiddroga! E c’è anche la Salma travestita da sfinge! E le maschere allegoriche mehicane! E c’è quello di Kick Ass che si bomba assieme ad un tizio sconosciuto megasurfer la Gossip Girl e si ammazzano di cannoni mentre il cartello mehicano è lì che rosica! Paura otra vez!». Poi scopri che:
-Tutte le cose del film che potevano essere interessanti si sono viste nel trailer

-Benicio Del Toro è l’unico che lì in mezzo si salva ma solo perché ha di suo gli occhi da pazzo e due baffi da far invidia a Lucia Annunziata al mattino davanti allo specchio

-È tutto di una falsità disgustosa. Perché?

Perché vale il principio di Cowboy VS. Aliens,  secondo cui butti tutto quello che c’è d’interessante nel trailer e/o nel titolo e/o nel merchandising con l’obiettivo unico di far pagare il biglietto e intascarti il valsente, e se poi è un film fatto dai clown pazienza e soprattutto stracazzi di chi ha scucito ottoeuroemmezzo al signor UCICinemas. Ma andiamo per ordine, semplificando e inaridendo:

.Sceneggiatura dimmerda CHECK

.Bellissimi di Rete4 per far andare le tipelle al cinema CHECK

.Bel fighino per far andare gli zarri al cinema CHECK

.Attori famosi e comparsate stylish per far andare la gente normale al cinema CHECK

.Assenza di qualsivoglia plausibilità CHECK

Minchia troppo selvaggio il triangolo
.Assenza di azione CHECK

.Violenza che copre l’assenza di tutto il resto finendo a parlar male dei messicani CHECK

.Velato - ma non troppo - amore omosessuale tra i bellissimi di Rete4 CHECK

.Promozione del sogno ammeregano CHECK

.Cose senza senso all’inizio e alla fine indice dell’eccessivo amore per le sostanze psicotrope di cui sono affetti gli sceneggiatori CHECK

.Conseguente giramento di maroni dello spettatore che ha scucito ottoeuroemmezzo sperando di vedere un bel film CHECCKISSIMO

Ma spieghiamoci.

Il film inizia con una frase che già vorresti mandare a quel paese tutti. TUTTI. Chi l’ha scritta, chi l’ha recitata, chi l’ha doppiata, chi l’ha prodotta, chi l’ha girata. Siamo sulla classica spiaggia al tramonto con un filtro di Instagram applicato alla camera, dove la Gossip Girl sta camminando sognante e innamorata, dicendo: «Se vedete questo video non significa che sia viva. Ma forse sì. Ma forse no. Ma forse sì. Speriamo che serva a farvi venire voglia di guardare il film». E non mi sono allontanato troppo dalle battute originali. Con questa frase Oliver Stone ti sta dicendo che non sa una cippa di cosa fare e che tirerà fuori un film dallo sviluppo consequenziale azione-reazione in cui metterà un finale a sorpresa piuttosto equivoco, sperando che lo stylish e il sangue e la classica ambientazione da storia di droga in Messico servano a salvare tutto quanto. Casca male.

Per il resto abbiamo una coppia di amici, uno è un soldato che ha combattuto (ammazzato forse è più appropriato) in Afghanistan, l’altro ha una laurea in chimica ed una in economia: assieme producono marijuana e si bombano la Gossip Girl, alternati o assieme, «perché siamo hippy, ci facciamo le canne e andiamo sul surf». La marijuana che producono pare sia la mejo der monno e questo scoccia non poco i cartelli messicani che prima con le buone e poi con le cattive li costringono a vendergli il loro prodotto. Con le cattive significa che rapiscono la biondina. I nostri eroi, innamorati di e tra loro stessi e di O, la Gossip Girl (se è un omaggio a Histoire d’O andatevene, anche perché non c’entra nulla), si adoperano per riprenderla attraverso le loro conoscenze, militari e personali (il corrotto agente della DEA John Travolta) e succede il gran casino, dove Benicio si diverte a far scorrere sangue, fino al finale.

Belli belli belli in modo assurdo
Ecco, il finale. Alla fine del film succede tutto e il contrario di tutto, letteralmente. C’è un finale dove muoiono tutti, e poi un altro dove si salvano le chiappe e vanno a vivere felici e contenti in Indonesia, ad amarsi, a farsi le canne, a surfare e «a vivere come selvaggi». Testuali parole. Questo vuol dire due cose: 1) per tutto il film hai pensato che i selvaggi fossero i messicani che mozzano teste con le motoseghe e frustano la gente in faccia, e invece sono loro, yuppie milionari, che sono selvaggiamente fighi nello spacciare e farla in barba a tutti quanti; 2) che il messaggio mandato è «siamo selvaggiamente fighi yeah bella che fighi gli americani nel fregare e ammazzare i messicani che spacciano yeah noi spacciamo senza dare fastidio a nessuno yeah ma se ci rompete le palle allora sì che diventiamo più selvaggi di voi yeah», abbastanza in linea con l’idea e l’ideologia del sistema che li ha prodotti.

La cosa che conferma un poco questo mio sospetto sono le maschere usate dai protagonisti delle quali una ben visibile nella locandina: non sono un grande esperto, ma so che quel tipo di maschera veniva usato per celebrare la vita nella morte durante rituali di varia sorta (va bene far gli sboroni ma non mi spingo oltre perché non posso), ma soprattutto era usato dai “colonizzati”, dai nativi americani delle civiltà precolombiane, per difendere la propria identità culturale al momento dello scontro (sterminio forse è meglio) con l’ispanizzazione e la cattolicizzazione. Sono giunte fino a noi riadattandosi e mescolandosi con le culture dominanti nel corso dei secoli (ri-leggi cattolicesimo), comunque mantenendo questo significato; qui i protagonisti le fanno proprie per resistere e minacciare la messicanizzazione del cartello che a sua volta minaccia il loro mondo dorato di produzione e rivendita, basato sul baratto (tutti quelli che gli danno una mano lo fanno in cambio di grosse paccate d’erba). Il fatto di vedere nella locandina del film una maschera come quelle testé descritte attraversata da due occhi caucasicamente AZZURRISSIMI conferma ulteriormente la mia voglia di sovrinterpretare e mi fa pensare di avere un po’ ragione. Ma fermo il trip che non ne vale la pena.

In conclusione, se volete andare a vedere Le belve, o Savages (il titolo originale), non andateci, o rubate i biglietti. Perché dopo dieci secondi vi becchereste la Gossip Girl che parlandovi dei suoi due fidanzati vi dirà: «uno scopa con la guerra dentro, io ho gli orgasmi e lui i guergasmi (pallida traduzione dal wargasm inglese), è freddo come il metallo, mentre l’altro è caldo come il legno, è l’ammòre» e altre cagate del genere.  Il buon Oliver sa come girare un film, ma qui pare si sia dimenticato di come si scrive. Ma parecchio.
Ebbravo.