sabato 9 marzo 2013

Non ci sono più i russi di una volta - A GOOD DAY TO DIE HARD, 2013


Da studente del Dams è difficile far capire ai propri compagni l’importanza capitale del genere action nel mondo, del cinema e non.
Gente che al corso di produzione cinematografica ancora prima  di avere scritto una riga di soggetto se ne esce con «io voglio  farlo in bianco e nero», che vuole fare la tesi sul documentario  in Herzog, che indaga sul tema dello specchio, che se gli chiedessero «cosa porteresti su un’isola deserta?» risponderebbe «l’iPhone, le Clark o la reflex, ma non so dirti in che ordine» e che se sentisse due note di pizzica dimenticherebbe di essere di Merano e si lancerebbe nella danza delle spade perché la fa sentire tanto libera. Gente così. (fottuti radical chic)

Gente che appena sente «The Expendables» sorride, fa spallucce, lusingata per aver sottolineato la sua superiorità di cultore cinematografico rispetto alla mortalità di un genere commerciale, arido e passato di moda anche se di moda non lo è stato mai. Gente che non ha capito un cazzo né del mondo, né del cinema.
Di qui la domanda principale: tralasciando la sacra, multiforme e intoccabile idea di arte - incarnazione del moto perpetuo dell’animo umano nel darsi e ricevere dal mondo – tradotto: quella che serve a darsi un tono in una discussione ciucciando l’astina degli occhiali (e se avete un po’ di cultura genuina vi accorgete che stiamo entrando in tema), come spiegare l’importanza di una trilogia come Die Hard nell’evoluzione di un genere che volente o nolente  ha cambiato radicalmente l’immaginario di grandi e soprattutto piccini? Come spiegare che i film con Stallone e Schwarzenegger sono entrati nel cuore e nella testa di chiunque li guardasse con innocenza? Come spiegare che finita la guerra fredda non c’è stato quasi più bisogno di loro? Come spiegare che Bruce Willis è stato l’anello di congiunzione tra gli ormai Grandi Vecchi e un mondo che abbandonava i nostri beniamini a far cose come Fermati o mamma spara e Una promessa è una promessa?

La serie dei primi due Die Hard e mezzo (il secondo, quello con Franco Nero all’aeroporto, non se lo ricorda nessuno) ha fatto epoca: da un punto di vista di oggettiva qualità nella lavorazione del film e soprattutto nella costruzione di protagonista e antagonisti. Siamo ormai negli anni ’90 e gli Stati Uniti non hanno più bisogno di eroi per vincere la guerra fredda, c’è bisogno di persone più normali cui affidare la tutela del nostro mondo. Quindi i Mr. Olympia vanno a fare i comici e gli attori comici vengono a fare i salvatori della patria: come un Andrea Pirlo qualsiasi spostato davanti alla difesa da Ancelotti, anche a Bruce Willis è stata rivoluzionata la carriera. Sentitamente ringraziamo.

Entrando più nello specifico, nella trilogia vediamo per la prima volta un protagonista che è la summa di molte figure dei precedenti cinquant’anni del cinema americano: un po’ investigatore da film noir, un po’ (tanto) Rambo, onnipotente e vulnerabile, che uccide centinaia di cattivi ma che ha problemi coniugali, che cammina a piedi nudi sui vetri rotti prendendo le aspirine per il mal di testa. Pensando a Sly che in Rambo III si cura una ferita con la polvere da sparo si capisce cosa voglio dire. Questo «superamento del superomismo nietzscheiano» (cit. “Me stesso mentre me la sboro”, in Pizze in faccia, puntata n. 14?, febbraio 2013) significa anche una  diversa concezione nell’ideazione dei film e dei loro cattivi, dello spazio in cui si muovono, e dello spostamento degli antagonisti da entità malvagie personificate (i vari ufficiali della Santa Madre Russia) a persone che diventano entità controllando l’intero svolgimento della vicenda («Simon ordina: …»). Avere un personaggio più caratterizzato porta ad avere storie più particolari, detta in malo modo. Ma le storie particolari, in questo caso, sono dei film a dir poco PERFETTI, COMPLETI, MERAVIGLIOSI: sto parlando di Trappola di cristallo e Die Hard – Duri a morire, ovviamente. Chi non li ha mai visti faccia il favore di recuperare subito o una demoniaca pioggia di fuoco s’abbatterà sul capo suo e dei di lui congiunti.
Il concetto di claustrofobia nell'action.

Paragonare gli ultimi due episodi della serie alla trilogia iniziale è un’azione da un lato ovvia, ma dall’altro assolutamente sbagliata: bisogna accantonare le aspettative da appassionato per rendersi conto che i Die Hard 4 e 5 sono un’operazione più di marketing che di cinema, e nella pratica si vede, per cui benché la tentazione sia forte si deve considerarli come film a sé, lontani anni luce dalle meraviglie inziali.
Perché se da un lato hai Duri a morire, ovvero il new thriller anni ’90 applicato all’action (esempi di new thriller sono I soliti sospetti e Seven, dove è l’antagonista a tirare i fili della vicenda, facendo da vero e proprio regista della situazione: «Simon ordina: …»), con Jeremy Irons e Samuel L. Jackson, dall’altro hai un Die Hard 4 con Justin Long che manco conosce i Creedence Clearwater Revival e Edoardo Costa a fare il cattivo. Edoardo Costa. Capite che non son cose paragonabili never in the life. Ma never never never.

Passaggio di consegne un cazzo.
Comunque Never In The Llife 4 aveva un budget grosso quanto l’ego di quel coglione di Corona, Never In The Life 5 no, anzi. Sfruttando la grande onda lanciata dal terremoto The Expendables 2, han fatto un film dove è tutto concentrato sulle cose basilari, meno due. Si vede che parte ad handicap tentando di coprire tutto con esplosioni e Bruce Willis. Ma dato che Bruce Willis è vecchio, si dà al film un tono da passaggio di consegne. Anzi, l’unica funzione della sceneggiatura è dire che John McLane passerà il testimone a suo figlio. ERRORE MORTALE. Primo, e qui parla il fan, non c’è qualcuno che possa sostituire John McLane. Secondo, e questa è un’analisi più lucida, non c’è nessuno che possa sostituire John McLane. Ma se ti chiami Salta Boschi («Piacere, Skip Woods, sceneggiatore») e hai scritto cose come l’A-Team e Hitman non lo puoi sapere. Se poi si considera che tutto questo è fatto per coprire l’assoluta assenza di qualsivoglia resto di sceneggiatura, scende una lacrimuccia a pensare a quando si era bambini su Rete 4 e uno schermo attaccato ad un tubo catodico faceva risuonare «Yippie Kay Yay figlio di puttana».

Però c’è il resto: un inseguimento della stramadonnazza di dieci minuti, elicotteri e autoarticolati che sparano, e tutto che esplode. Manca una storia di livello, ma Bruce Willis e suo figlio Jai Courtney si fanno le battutine e sparano e fanno esplodere tutto e distruggono. Se uno va al cinema senza aspettarsi i sani capolavori di una volta né una storia particolarmente articolata uscirà piuttosto soddisfatto. E poi esploderà.

Non completamente soddisfatto però, e qui  si nota quanto i tempi sono cambiati. Questo è un film con i russi fatto nel 2012, non nell’86. È questo ciò che volevo dire con “tutte le cose basilari, meno due”:

.la prima, la tigre della steppa, l’algida assassina siberiana dall’irresistibile carica erotica, è mostrata per tre minuti totali, dei quali 2:59 con indosso una tuta anti radiazioni. E oltre a non uccidere quasi nessuno in maniera spietata, si suicida in elicottero come un imbecille senza nessun motivo, beccandosi anche un medio al ralenti dal buon Bruce mentre si tira dal palazzo in fiamme.  

.l’altro è un errore da megaprincipianti se vuoi fare un sequel di Die Hard: nel casino finale spunta dal nulla un personaggio cui io avrei dedicato un’intera trilogia: un russo di nove metri, largo come due Danko, pelato, a torso nudo a -30 sotto la pioggia radioattiva di Chernobyl, e con tatuato CCCP  sulla schiena ad una grandezza di caratteri che ci fai una pubblicità a S.Siro. Ecco, quest’uomo non solo compare per sparuti secondi di un film action, ma non picchia nessuno. Spara col mitra, da lontano. E non picchia nessuno. Un croissant ripieno di fiele.

In definitiva un film che sarebbe potuto essere meglio ma che non è male, che soffre dell’andamento dei giorni nostri. Non c’è più l’action di una volta perché non ci sono più i russi di una volta, o forse il contrario, e non si sa cosa sia meglio. E non sto parlando solo di cinema.

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